martedì 12 febbraio 2013

La cinquecento cilestrina - 9- La stazione


L’idea di prendere in prestito le barche fu ovviamente di Alberto, che non era cattivo ma, oltre che superarci di una spanna, era anche grosso, dunque convincente. 
Alberto riusciva ad alzare da solo la panchina di legno che era vicino allo stagno del Parco Damioli. Ecco tutto. Io e Francesco insieme riuscivamo a trascinarla di mezzo metro, ma con notevoli e prolungati sforzi. Alberto riusciva a sollevarla in alto senza alcuna fatica, con aria ovviamente trionfante. Quindi, quando disse che ci saremmo fatti “prestare” due naecc, nessuno ebbe nulla da obiettare. Nemmeno i legittimi proprietari dissero nulla, visto che non ne erano al corrente.
“Oltrepassiamo l’ingresso al porto, arriviamo davanti al lido e ci tuffiamo! Tu inizia a remare” sentenziò Alberto, lanciandomi un remo. Le gambe mi tremavano che parevano la gelatina rosa gusto fragola che la mamma aveva servito domenica dopo pranzo. 
Mi scappava anche la pipì. Fortissimo. 
Avevo paura. Non dell’acqua, sapevo nuotare benissimo io, mi aveva insegnato papà, che era uno dei pochi in grado di attraversare il lago a nuoto. Io avevo paura che la mamma lo venisse a sapere. Non era un buon momento per me quello… Dopo la gita a Timoline in treno, dopo aver lavato i sedili della cinquecento con il latte fresco, se la mamma mi avesse scoperto a rubare barche, mi avrebbe di certo spedito in quel collegio svizzero che nominava sempre. E io mi vedevo già con bermuda blu e calzini a righe fin sopra il polpaccio. Ma non era possibile mostrarsi in disaccordo con Alberto… Dunque iniziai a remare in fretta: che finisse nel più breve tempo possibile, la mia avventura!

Francesco prese l’altro remo e mi diede man forte, mentre Alberto, in piedi nel mezzo dell’altra imbarcazione frustava la sua ciurma con ramoscelli di salice, urlando: “Forza schiavi, forza.” Per fortuna aveva scelto di salire con gli altri… 
Alberto si agitava, piantato a gambe larghe tra Pietro e Simone che remavano come pazzi. Ma Simone era mingherlino e faceva fatica. La barchetta continuava a girare su se stessa, senza tenere una direzione. E Alberto scudisciava tutti col salice piangente, finché una sferzata di foglie colpì Simone negli occhi, lui abbandonò subito il remo, portandosi le mani verso il viso. Pietro non si accorse di essere rimasto l’unico al lavoro e diede una vogata notevole. L’imbarcazione ondeggiò pericolosamente. Alberto, che a braccia alzate rotava la sferza, si inclinò a destra e poi a sinistra, poi nuovamente a destra e perse l’equilibrio, agitandosi come una sardina all'asciutto  filò dritto in acqua. 
Lui e la sua frusta. 
Nessuno parlò, ma l’idea fu comune, l’accordo subitaneo: girammo i tacchi e tornammo a riva. E anche Simone remava che pareva un canottiere provetto. Alberto, in acqua urlava: “Vigliacchi, appena esco vi buco le ruote delle biciclette! Vigliacchi che non siete altro. Quando dormite vengo a tingervi i capelli con l’acqua ossigenata.”.
Le minacce erano spaventose. Ma io non volevo andare in Svizzera. Piove sempre in Svizzera e a me piace il sole. E nel collegio mica ti insegnano a diventare capitano del battello. E anche Francesco remava sodo. Di certo pensava alle minacce di Alberto… Valutava che alla camera d’aria della bici ci avrebbe messo una pezza, ma se suo padre l’avesse scoperto seduto su quel naet gli avrebbe sferrato certi calci nel sedere che non l’avrebbe comunque potuta usare, la bicicletta, per almeno una settimana. 

Meglio toccare la terraferma in fretta e rimettere al loro posto i due naecc.

Subitissimo. 


Racconto scritto nel 2010, ad accompagnare la mostra fotografica di mio marito "I lake Pisogne", altre fotografie su: 
https://plus.google.com/photos/113258995033312588615/albums/5482977161003555329?banner=pwa

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