La cinquecento era già carica: le due sedioline apribili, i cappelli verdi maculati, i gilet con mille tasche
vuote. Le canne da pesca, la mia più corta, gialla e nera. La cassetta in
plastica con gli scomparti per i galleggianti, gli ami e i mangimi e i
pastoncini, i pesci finti tremolanti di gelatine policrome, i pesetti di
piombo, il filo di nylon.
Tutto pronto.
Ma la mamma lo aveva dimenticato. Lei aveva programmato una gita artistica, con visita alla chiesa della Pieve. Io amavo quella chiesa! Da piccino, la nonna Rosy mi ci portava, infilato nel seggiolino da bicicletta, al ritorno dal cimitero. Non entravamo mai: ci si fermava fuori, a vedere i teschi. Poi la notte mi tornavano in sogno quelle orbite nere, quei sorrisi immobili di denti sconquassati e urlavo fortissimo: “Aiuto, arrivano i morti che ridonoooo! Vengono a prendermiiii!” e mio padre che urlava anche lui: “Se tua madre non la smette di portarlo alla Pieve le vendo la bicicletta!”. Ma la nonna continuò a condurmici, anche a piedi, quando diventai più grande.
Tutto pronto.
Ma la mamma lo aveva dimenticato. Lei aveva programmato una gita artistica, con visita alla chiesa della Pieve. Io amavo quella chiesa! Da piccino, la nonna Rosy mi ci portava, infilato nel seggiolino da bicicletta, al ritorno dal cimitero. Non entravamo mai: ci si fermava fuori, a vedere i teschi. Poi la notte mi tornavano in sogno quelle orbite nere, quei sorrisi immobili di denti sconquassati e urlavo fortissimo: “Aiuto, arrivano i morti che ridonoooo! Vengono a prendermiiii!” e mio padre che urlava anche lui: “Se tua madre non la smette di portarlo alla Pieve le vendo la bicicletta!”. Ma la nonna continuò a condurmici, anche a piedi, quando diventai più grande.
La mamma voleva vedere la “danza macabra”, restaurata da pochissimo. Che io non avevo idea di cosa fosse una danza macabra, ma il nome mi intrigava sinceramente. E comunque avrei fatto di tutto pur di non andare a pescare. Avrei preferito anche un giro in visita al collegio svizzero dove minacciavano di incarcerarmi giorno sì e giorno sì.
Odiavo la pesca.
E non era vero che serviva per diventare uomini. Lo zio Imerio era un uomo e non andava a pesca e nemmeno a caccia. Lo zio Imerio dipingeva quadri bellissimi di donne e fiori. Papà lo chiamava femminuccia, ma non perché dipingeva fiori, il motivo era che lo zio Imerio non andava a pesca.
Anch’io non ce la facevo proprio. Ogni volta che un pesce abboccava fingevo di non sentirlo, guardavo altrove, chiacchieravo, cercavo di interessare mio padre ad un punto fisso, lontano dal galleggiante. Ma, presto o tardi, papà se ne accorgeva: “Ha abboccato! Ha abboccato!, Forza, che sei uno scemo? Non senti che ha abboccato? Dai, dagli un po’ di filo…” E cominciava la breve ed ultima corsa della mia preda. L’unica speranza che serbavo in cuore era che fosse un pesce “sole”, che quelli non si mangiano, è come mangiare sabbia diceva papà, e si ributtano in acqua. Ma se arrivavano sardine, le si staccava dall’amo e si gettavano agonizzanti in una borsa di plastica, con le labbra squarciate e sanguinolente. Continuavano a boccheggiare per ore. E mi pareva di sentirle respirare, dietro le mie spalle. A volte poi si dibattevano, nell’intento di lanciarsi in acqua. Tutto inutile. Restavano ammassate, a morire, in una sportina da supermercato, gialla.
Bramavo la gita alla Pieve, non la pesca. Ma non volevo che mio padre mi chiamasse femminuccia, come lo zio Imerio. Poi la mamma disse che io avevo bisogno di cultura. Io non pensavo di avere proprio bisogno di cultura, ma la mamma mi guardava come se fossi malato. E anche papà, cominciò a guardarmi così. E disse che non sarei mai diventato un uomo. Ma non credo nel senso che sarei rimasto piccolo. Poi aggiunse:
“Fate come volete, tanto avete sempre ragione voi”. Girò i tacchi ed uscì di casa.
Mamma pianse due lacrimoni rotondi come biglie, ma in tutta fretta. Poi si arrabbiò e disse: “Peggio per lui!”.
Partimmo col nostro cestino di panini e succo di frutta.
La danza macabra non era mostruosa come speravo... Uno scheletro sganasciato e traballante, frecce, e una fila di signori ricchi e poveri. La mamma cercò in tutti i modi di farmela sembrare migliore di altre che aveva visto: lei aveva la passione per quel genere di affreschi. Era proprio strana la mia mamma: girava a cercare immagini di scheletri e uomini infilzati... Ma di questo la supplente non ne sapeva ancora nulla.
Poi ci sedemmo sul prato, con la tovaglia a quadretti bianchi e blu: io mangiai tre panini, anche quello al salame che era per mio papà. E la mamma sorrideva soddisfatta.
Non mi sentivo più malato.
Racconto scritto nel 2010, ad accompagnare la mostra fotografica di mio marito "I lake Pisogne", altre fotografie su:
https://plus.google.com/photos/113258995033312588615/albums/5482977161003555329?banner=pwa
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