Se guardavi verso monte,
aspettavi il treno. Se ti giravi al lago, vedevi il battello.
Io sapevo che da grande avrei fatto il capitano del battello, ma anche il capotreno mi sarebbe piaciuto, se proprio avessi dovuto scegliere un lavoro diverso. Per questo mi piaceva giocare sul monumento dei marinai. Mamma non voleva che ci saltassimo sopra. Più di una volta mi aveva scovato a fare su e giù dalle punte del basamento a stella e mi arrivava certi ceffoni… Diceva che non era un parco giochi, che i monumenti vanno rispettati. A noi piaceva rimanere sdraiati sul braccio aggettante dell’ancora, ad attendere...
Io sapevo che da grande avrei fatto il capitano del battello, ma anche il capotreno mi sarebbe piaciuto, se proprio avessi dovuto scegliere un lavoro diverso. Per questo mi piaceva giocare sul monumento dei marinai. Mamma non voleva che ci saltassimo sopra. Più di una volta mi aveva scovato a fare su e giù dalle punte del basamento a stella e mi arrivava certi ceffoni… Diceva che non era un parco giochi, che i monumenti vanno rispettati. A noi piaceva rimanere sdraiati sul braccio aggettante dell’ancora, ad attendere...
Si estraeva a sorte, tutti,
tranne Alberto che era più grande e aveva certi diritti. E nelle giornate
cocenti di Agosto le ore erano scandite dal passaggio della littorina arancione,
dal fischio del traghetto e dai turni sul braccio dell'ancora.
Quel pomeriggio non passava mai. Avevamo già fatto cinque o
sei bagni. Ci eravamo lanciati dall'attracco, dai porticcioli, dal lungolago, a
gambe divaricate, come rospi sghembi.
Il ghiacciolo delle quattro, da succhiare prima i colori e poi il gelo bianco.
Il caldo e l’afa avevano schiantato il paese, non accadeva nulla di nulla: non gironzolavano nemmeno i cani.
Di treni ne erano filati via tre, ma senza frastuono. Quattro battelli arrivati, tre partiti. Pochissime persone, affaticate.
Il ghiacciolo delle quattro, da succhiare prima i colori e poi il gelo bianco.
Il caldo e l’afa avevano schiantato il paese, non accadeva nulla di nulla: non gironzolavano nemmeno i cani.
Di treni ne erano filati via tre, ma senza frastuono. Quattro battelli arrivati, tre partiti. Pochissime persone, affaticate.
“Oggi, a me, mi sudano anche gli orecchi.”
Sussurrò Francesco, cercando di consumare meno energie possibili…
"A me gli occhi"
Rincalzò Simone senza nemmeno alzare le palpebre.
"A me gli occhi"
Rincalzò Simone senza nemmeno alzare le palpebre.
Alberto era disteso sull'ancora, pancia in giù, gambe e
braccia a penzoloni.
Noialtri ci rotolavamo sull’erba, alla ricerca di qualche
ciuffo più fresco.
Accadde in un niente. Sentimmo tutti il rumore, tondo, come lo scrosciare di un goccio d’acqua e guardammo all'insù verso Alberto che si analizzò il braccio destro.
“Che schifooooo! Un uccello con la dissenteria me l’ha fatta
addossoooo!”
Io non avevo mai visto una cacca di uccello così grande. In tutta la mia vita. Mai. Nemmeno al mare, che quelle dei gabbiani mi sembravano gigantesche. Era
bianca e marroncina come ci si aspetta debba essere una cacca d’uccello, ma le
dimensioni erano fuori scala. Nessuno poteva ridere: Francesco era furente, con la faccia rossa e i pugni stretti come se volesse tirare il collo all'uccello che lo aveva scambiato per un bagno pubblico.
Ci trattenemmo. Denti stretti e occhi a terra, fu Francesco il primo ad avere scossoni alle spalle, poi singulti celati ed alla fine l'isteria ci fulminò e scoppiammo in risate fragorose e capriole sull'erba e rotoloni, trattenendo il ventre con i palmi delle mani.
Ci trattenemmo. Denti stretti e occhi a terra, fu Francesco il primo ad avere scossoni alle spalle, poi singulti celati ed alla fine l'isteria ci fulminò e scoppiammo in risate fragorose e capriole sull'erba e rotoloni, trattenendo il ventre con i palmi delle mani.
“Questa volta vi faccio pulire la mia maglietta con la
lingua e comincerai tu, Francesco!” intimò Alberto. Ma Francesco non poteva sentirlo si contorceva a terra, in preda ad un attacco di ridarella.
Alberto scese dall'ancora, sferrò un calcio nella schiena di Francesco e ripeté la sua richiesta:
"Francesco. Adesso lecchi la cacca della mia maglietta."
Alberto scese dall'ancora, sferrò un calcio nella schiena di Francesco e ripeté la sua richiesta:
"Francesco. Adesso lecchi la cacca della mia maglietta."
“Modera i modi ed i termini, Alberto! E ringrazia il cielo
se non ti porto da tua madre trascinandoti per un orecchio! E smettetela tutti di salire su quel monumento! Non è un luna park questo!”
Mia madre era sbucata di soppiatto come la donnola che ruba
le uova al nonno. Si mise in mezzo alla lite con il coraggio di una rovesciata
in area, sola davanti al portiere. Temeraria la mia mamma, che Alberto era un
po’ più basso di lei, ma molto più grosso. Lui, subito, mi sibilò:
“Domani ce la vediamo tra uomini”
Ma la mia mamma non era sorda… Detto fatto gli pinzò
l’orecchio sinistro con due dita e lo trascinò per tutto il lungolago fin davanti all'edicola, poi attraversarono la strada e su, in mezzo alla piazza, sempre con l'orecchio di Alberto tra il pollice e l'indice, poi ancora su, in Via San Marco, fino alla casa di Alberto, che
lo capì in fretta che con la mia mamma non si scherza.
E noi dietro, a spiare Alberto rutilante e a ridere, ma a debita distanza, affinché la mia mamma non ci scorgesse...
E noi dietro, a spiare Alberto rutilante e a ridere, ma a debita distanza, affinché la mia mamma non ci scorgesse...
Racconto scritto nel 2010, ad accompagnare la mostra fotografica di mio marito "I lake Pisogne", altre fotografie su:
https://plus.google.com/photos/113258995033312588615/albums/5482977161003555329?banner=pwa
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