mercoledì 29 dicembre 2021

Il treno dei bambini, Viola Ardone

 

39 - 12/2021

Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi, 2019

NO SPOILER


Non appena scese l’ultimo gradino, sentii che era lei: era lei, la mia.

Con la giacchetta rosa acceso e la borsa coloratissima non poteva che essere destinata a me. E poi era così diversa dalle altre: alte, longilinee, bellissime di occhi cerulei e sottili capelli paglierini. Lei no. Lei aveva gambe corte e forti, occhi allungati e una frangetta rigida ad evidenziarli e capelli nocciola tesi, duri. E uno sguardo di battaglia.

Tra tante russe identiche, l’unica tartara disponibile, l’hanno data a me.

E mi ha regalato un sorriso gigante e uno sguardo che era una dichiarazione di guerra.

I bambini di Chernobyl. Così li chiamavano e Katsiarina veniva un mese all’anno, in una famiglia italiana, per “abbattere le radiazioni”. E per farci soffrire tantissimo.

La prima sera rubò tocchi di pane dal tavolo. Lo nascose nella sua sacca variopinta. In seguito qualche boccone di dolce e caramelle. Poi capì.

Mangiava tutto. Vorace, euforica. Si ingozzava di frutta anche quando era troppo matura. Le banane scurette con quell’odore fermentato. Le albicocche con la macchia nera. Adorava l’anguria! Urlava e saltava attorno al tavolo per il gelato: “GE-LA-TO GE-LA-TO GE-LA-TO!!!”.

E io me la abbracciavo forte.

E lei mi stringeva stretta che pareva facesse un nodo con le braccine, dietro.

E mi mostrava il pugno quando si arrabbiava, a due centimetri dal viso. Con lacrime a rotoloni sulle guance, odio furente negli occhi e un pugno fermo davanti al mio naso.

E faceva il bagno nella piscinetta all’aperto anche nei giorni di pioggia. E mi urlava “mama, no fredo, no fredo!”

E un giorno l’abbiamo portata al mare.

E le insegnavo l’italiano, ma niente da fare: parlava in russo e mostrava il pugno.

E il mese passava e lei ripartiva.

Su quel cazzo di pullman, viso arrabbiato dietro il finestrino, sopracciglia piegate in giù. Io fradicia di lacrime, ma dopo, in macchina.

E nella borsa doveva essersi infilata anche un pezzo del mio cuore, perché, per mesi, non era più lo stesso, mancava tutto il suo frastuono, i suoi piedi che battevano a terra ripetendo NO! L’anguria cambiava sapore. E pure il gelato.

Per due anni è venuta. Poi è stata adottata ed è scomparsa, come certi uragani che spazzano tutto e dopo si ricostruisce, certo, ma il vuoto, sotto, rimane.

 

Il tema di questo romanzo è il viaggio dei bimbi del mezzogiorno, che nel primo dopoguerra, tramite un’idea di solidarietà della sinistra, trascorrevano qualche mese al nord, presso famiglie che potevano alleviare la povertà, garantendo cibo, affetto e cultura. Un viaggio tra due mondi lontani e i piccoli rimanevano sospesi in mezzo, una gamba a Napoli e una a Bologna, senza sentirsi parte di nulla, senza più un vero senso di appartenenza. Un fatto che non conoscevo (e che approfondirò con altri scritti che mi sono stati consigliati, se a qualcuno interessassero, ve li condivido) descritto con la delicatezza che meritano i bambini e la sincerità secca necessaria per descrivere uno spartiacque emotivo di tale portata.

Il protagonista è Amerigo, che possiede solo una scatola di latta e sua madre, schiva pure quella, non avvezza alle cose del cuore. Il bimbo ha l’opportunità di vedere la differenza tra il suo mondo e quello dei coetanei più fortunati. E affronta e ci fa affrontare temi legati alla solidarietà, a come fare del bene può contemporaneamente ferire, al senso di comunità e di famiglia. A come il luogo di nascita può decretare la fortuna (o meno) della riuscita di una vita.

 

Niente recensione dunque, perché di quelle ne trovate a dozzine, ma solo il mio ricordo, scoperchiato dalle pagine che ho letto: l’unica esperienza simile che ho vissuto sulla mia pelle, di una bimba con un piede sul lago d’iseo e uno in Bielorussia.

 

Ha 15 anni, ora quella bimba. Chissà se quando si arrabbia, alza ancora il pugno al cielo.

 

“Ma adesso che la distanza è incolmabile e so che non ti incontrerò più, mi viene il dubbio che sia stato tutto un equivoco, tra me e te. Un amore fatto di malintesi.”

 

"Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. Hanno pigliato le abitudini loro, hanno fatto altre strade, altri giochi. E quando arrivano a me, che ne sanno di come cammino io e di dove voglio andare? Si devono abituare mano mano, ma intanto il piede cresce, le scarpe si fanno piccole e stiamo punto e a capo."

mercoledì 22 dicembre 2021

Irène Némirowsky, Il ballo

 

38 - 12/2021

Irène Némirowsky, Il ballo,  Racconti d’Autore, Adelphi per il sole 24 ore, 2015, traduzione di Margherita Belardetti

NO SPOILER

Io lo scorso anno, la Némirowsky nemmeno non la conoscevo, sai?

Non ridere, già me ne vergogno a sufficienza… Questo è il suo terzo libro, che mi accoltello in ventre. E per qualche mese sarò satolla.

Perché crea dipendenza, questa donna. Ed è inutile che io cerchi a destra e a manca: nessuno sa narrare con un vigore così disilluso e impietoso. Verso se stessa e il mondo.

Ho letto di tutto, su questo libro. Ho scritto anch’io a sufficienza, sull’autrice, mesi fa, quindi non mi dilungherò sui scontati apprezzamenti alla scrittura, all’indagine dell’animo, alla capacità descrittiva.

Ti parlerò solo di cosa ha lasciato, “il ballo” a me.

Questa manciata di paginette, quasi autobiografiche, sono un supplizio. Fogli scritti a graffi di unghie laccate: artigli di madre carnefice, sul corpo di Antoinette figliola adolescente (la protagonista) da cancellare, dimenticare, perché non offuschi nulla, del mondo materno, di cui la donna è unica sovrana. Da scacciare dai pensieri con uno sventolio di braccio nudo e polso indiamantato e scie nell’aria, di dita e smalto cinabro.

La vita della ragazzina si intreccia a quella di una madre narcisista e del padre innamorato (al limite della stoltezza) di questa splendida moglie, in una tremenda danza tra ricerca d’amore e cattiveria vendicativa.

Un libro pesante di sentimenti inespressi e inesistenti, che lascia increduli. Tristi, svuotati.

Come si può? Come si può essere madre e boia?

E invece, la scrittrice ci spiega che sì: si può e lei lo sa benissimo. E ce lo racconta con un aneddoto da nulla: l’organizzazione di un grande ballo che la famiglia di parvenu, finalmente, si può permettere, dopo un passato misero.

Cacciata a dormire in uno scantinato, cosicché anche la sua stanza da letto possa diventare parte della giostra di luccicori organizzata dalla madre, la piccola Antoinette, relegata al ruolo d’eterna infante per non offuscare prematuramente la bellezza materna, si culla tra odio crudele e bisogno di tenerezza.

Un libro torbido, che infila lame in ponfi infetti, di affetti tossici. E ci lascia stremati, impotenti, arrabbiati.

 

Si legge in un soffio.

Ma rimane un cerchio alla testa e in bocca quel sapore metallico di alito cattivo e sangue che solo la Némirovsky sa lasciare. E fra qualche mese, tornerà il suo ammaliante richiamo.

‘Era l’attimo, l’istante impercettibile in cui si incrociavano “sul cammino della vita””, e l’una stava per spiccare il volo, mentre l’altra si avviava a  a sprofondare nell’ombra. Ma non lo sapevano.’

#ilibridihollyeponyo

lunedì 20 dicembre 2021

Pierre Jarawan, Là dove crescono i cedri

 37 - 12/2021

Pierre Jarawan, Là dove crescono i cedri, SEM, (2016) 2021, traduzione di Emilia Benghi

NO SPOILER


Pensavo di portarti in Libano. 

Immaginavo un percorso facile, forza, sali, che si parte ed eccoci nella terra dei cedri, così: in un batter di ciglia.

E invece no.

Ce lo dobbiamo meritare, il Libano. E ti porto in un viaggio che è iniziazione, è la sottotrama, è il rumore di fondo, mentre brancoliamo cercando una stella polare.


Ma ci vieni, con me, anche se la destinazione non è chiara. Iniziamo da un campo di accoglienza tedesco, c’è un bimbo piccolo, una famiglia libanese: una madre bella e tenace, un padre che racconta storie meravigliose che inebriano grandi e piccini, tutti ad ascoltarlo con occhi rotondi e bocca dischiusa. Lo senti? Narra di dromedari e deserti di terre gialle e reami… E lo vedi il piccolo Samir, rapito e fiero? 

Poi trovano una casa e la quotidianità li accoglie, ora gioiosa, ora pesante, come la vita di ognuno. E arriva pure una sorellina. La Germania, li ospita, ma il Libano rimane cornice e quadro, origine, principio e termine. 


Poco dopo, tutto si frantuma.

Come il vetro del cruscotto, dopo l’impatto, hai presente? Mille coriandoli sfavillanti che non ricordano nulla di ciò che erano. Così, in un tac. E non si può tornare indietro, anche se i pezzettini li recuperi tutti.


E va in frantumi anche Samir. Non abbastanza libanese, non abbastanza tedesco, non abbastanza grande, non abbastanza nulla. E prende il via una danza di ricordi e nostalgie per chi non c’è più, per una terra lontana e sconosciuta ma nella quale ha piantato, suo malgrado, radici. E mentre il dolore di chi è fuggito, o di chi ha abbandonato la patria, è facile da connotare, da nominare e definire, ciò che avviluppa le seconde generazioni è un limbo indefinito di sentimenti contrapposti: malinconici da sradicati o rabbiosi da figli abortiti.


Prima della partenza, dobbiamo soffrire e parecchio: attraversare solitudini gelide, amori che destabilizzano, nevrosi. Solitudini infinite. Inadeguatezza e malinconie. Ma il Libano rimarrà lì, ad ammaliarci, sirena che non tace il canto.

E lì, ti ci porto, ad un certo punto, perché Samir non si dà pace, impantanato nella matassa del ricordo che non si scioglie.

Allora andiamoci, in Libano! Guidiamo su strade inesistenti, appiccicate ai lati scoscesi di montagne aguzze in paesuncoli di capre, case di terra, contadini ed erbe selvatiche. Ti trascino in città, tra lo smog e le grida dei turisti, i colori che fanno a schiaffi sgargianti minigonne e scuri veli pudichi, il traffico e il vino. E la nenia dei muezzin. 


Mentre cerchiamo di capire cosa è successo e perché, passiamo in rassegna gli eventi che hanno lacerato il Paese dagli anni ottanta ai giorni nostri, ma li lasciamo lì, sullo sfondo, in modo da muoverci con consapevolezza, ma leggeri, senza esserne schiacciati.

E continuamente ci domandiamo l’importanza delle radici. Radici che sono affetti di madri e di padri, radici che sono amori, che sono appartenenza ad un luogo, ad un cuore. Radici che a volte vorticano sul pelo d’acqua senza far presa, lasciandoci orfani.

Ma lo capiamo subito che non sono i cedri, a brillare nella notte, indicandoci la via. Non è il Libano la stella polare. Siamo noi stessi, il fine della nostra ricerca. La necessità di una identità, di essere proprio quel “qualcuno”, anche poliedrico o cittadino del mondo. Un figlio, un compagno. Sempre un solingo.


“E dov’è casa? Dove c’è il cuore, si dice. Si torna una sola volta a casa perché abbiamo un cuore solo, e una sola patria.”


Una critica, forte, la faccio, (prima di chiudere) agli effetti wow della trama: i momenti “carramba”, direbbero gli amici. Certi incastri forzati a chiusura perfetta, che, a mio avviso, rendono claudicante la narrazione, la costringono troppo in binari bidimensionali  e no, non la gradisco per niente. Ma lo concedo a Jaravan, questa è l’opera prima di un autore trentenne che ha dato puntellato la narrazione sui fatti della sua vita, con la figura di un  padre che narrava favole al piccolo Pierre...


Ora però, chiudi gli occhi, e ascoltami.

Prima che tu prenda sonno, ti racconto dei cedri. 


#ilibridihollyeponyo


Storia di un figlio, F. Geda . E. Akbari, Baldini

 

LIBRO 36 - 11/2021

Storia di un figlio, F. Geda . E. Akbari, Baldini + Castoldi, 2020

NO SPOILER

ATTENZIONE, questa non è una recensione.


Akbari è il primo mattino di primavera. Avete presente quel giorno dell’anno in cui apri le finestre ti sporgi e senti che qualcosa è cambiato: l'aria rimane frizzante ma è un fresco quasi mieloso, la brezza sgrappola i fiori di ciliegio, i boccioli di iris tentennano e ti accorgi che i tulipani sono sbocciati così, all’unisono, splaf. È solo un giorno più del precedente ma ti senti Felice. Ecco, Enaiatollah fa lo stesso effetto, anche agi albori di un inverno già gelido. Se ne sta seduto su un palco rialzato, quasi nascosto dietro un tavolinetto coperto da un telo nero sdrucito e spiegazzato, postura defilata, umile, ti guarda con quel suo sorriso che è esordio di primavera e ripete: “Io sono fortunato”. 

Ho partecipato alla presentazione dell'ultimo libro di Akbari: “Storia di un figlio” ad un'oretta di distanza da casa mia. Io e mia figlia abbiamo letto i suoi due libri di corsa, uno via l'altro, ingollandoli a sorsi di gusto come una bibita fresca. Giulia è partita con “Nel mare ci sono i coccodrilli” assegnato dalla professoressa, io lo avevo in lista da un decennio, abbiamo dunque pensato di affrontare la lettura insieme. Concluso quello, via con “Storia di un figlio” uscito da poco, che ne è il seguito. Dunque andare a conoscere Akbari è stato un po' il coronamento (necessario) di questo breve percorso di lettura in comune.

Confesso che trovarsi di fronte ad un uomo che ha avuto quella sua vita dura, è stato profondamente destabilizzante ma intriso di emozioni. Lui parlava, scherzava, rideva, sono rimasta per un certo periodo sospesa tra il rapito e l’incredulo. Lui buffo, io instabile.

Akbari ha lasciato il suo Afghanistan a dieci anni: la madre lo ha abbandonato lontano da casa, per salvargli la vita. Da solo. Bimbo, disperso nel mondo. E ha vissuto, entro i sedici anni, eventi talmente folli da far fatica ad immaginarli: perdere il padre in una situazione dubbia, viaggiare per settimane tra monti di ghiacci scostandosi giusto per non inciampare nei compagni morti assiderati, rimanere rannicchiato nel sottofondo di un camion senza cibo, acqua e possibilità di fare pipì per giorni e giorni, attraversare il mare su un canotto gonfiabile, lavorare in un cantiere edilizio a nemmeno una dozzina di compleanni compiuti…


E te lo ritrovi lì, sul palco, proprio lui, un po’ cresciuto, ma è lui, con quel sorriso grande come l’Italia a ripetere che è fortunato.

E vorresti abbracciarlo, questo ragazzo ora scherzoso, allegro, leggero, ora serio e determinato. E ringraziarlo per il suo raccontarsi, aprire la p 

orta a tutto quel dolore e tirarlo fuori a fiume in piena, e buttarcelo in faccia, come acqua torbida che ci gela viso e stomaco e perché lo ha messo nero su bianco, tutto quel soffrire e dev’essere stato peggio che averlo vissuto.

Del libro non vi dico nulla. Ma leggetelo, dopo i coccodrilli, ovviamente, perché i rimandi sono continui e la portata di certi eventi potrebbe non essere ben compresa, senza la base dei primi anni di vita di Enaiatollah.

Questa non è una recensione. Ho già raccontato le sensazioni che mi ha lasciato il primo libro di Akbari, questo ne è “semplicemente” il seguito. Va letto, per sapere e per non girare il viso altrove. Perché certe vite, se non le si leggono, il nostro cervellino nato al sicuro in Italia, non può immaginarle.

“… perché dimenticare è un modo buono per non soffrire; e questo non per cattiveria o cosa, ma perché, prima di avere abbastanza spazio nella testa per occuparti degli altri, devi trovare il modo di stare bene con te stesso.”

giovedì 18 novembre 2021

Tutto chiede salvezza, Mencarelli

 LIBRO 35 - 11/2021

TUTTO CHIEDE SALVEZZA, DANIELE MENCARELLI, MONDADORI, 2020.

NO SPOILER


Ad ogni pagina, prenderesti i loro visi tra le mani. Per guardarli in fondo agli occhi e tirar fuori i fiumi di bellezza che scorrono dentro. Te li porteresti a casa tutti, i protagonisti. Come quei gattini fradici che hanno bisogno di una coccola e un pochino di riposo per tornare fieri e rubesti.

Se non fosse stata la scelta mensile del mio gruppo di lettura, non avrei mai letto due libri di Mencarelli uno di seguito all'altro. I motivi sono fondamentalmente due: Mencarelli lascia troppi lividi (c'è bisogno di guarire prima di passare alle botte successive) ed è pura meraviglia, da centellinare, è quello scrittore da tenere sul comodino, in attesa, perché a volte è sufficiente sapere di avere da parte una scorta di bellezza per rassicurare il cuore. E perché, come sosteneva Lessing (che poi sia un tedesco a disquisire sul piacere ai miei occhi lo fa meritevole assai) è piacere già l’attesa stessa del piacere, no?

 

“La casa degli sguardi” è stato il mio primo Mencarelli una batosta emotiva devastante: parlare di bambini ammalati, bambini deformi o sfigurati, bambini che muoiono. lascia distrutti. “Tutto chiede salvezza” è di nuovo autobiografico, si concentra su una settimana di trattamento sanitario obbligatorio che Mencarelli ha subito a vent’anni. Questo suo secondo romanzo colpisce ancora e comunque, e ancora e comunque. Ci avvicina ai derelitti che portano in giro vite spezzate quasi tutte in modo irrimediabile

Ragazzi, più o meno giovani che si ritrovano a condividere la stanza con ricoverati di lunga degenza, ci guardano con occhi impauriti dai loro letti d'ospedale sentiamo le loro urla e il loro infinito silenzio. Percepiamo la loro ansia o la totale assenza di emozioni. La vita in bilico tra ragione e follia, tra senso di colpa e voglia di normalità, tra volontà depauperata e remissione.

Viviamo per una settimana accanto a loro come se anche il nostro letto fosse sistemato in quello stanzone a fianco di chi non riesce a fare altro che fissare un punto nel vuoto oppure a chi per sopravvivere si procura tagli sulle braccia. Guardiamo chi si sente donna e si smalta le unghie dei piedi e chi preferisce rintanarsi in una realtà fatta di uccellini sull'albero oltre la finestra. Sentiamo la stanchezza dei medici, la loro poca affezione, il distacco di una sensibilità troppe volte dilaniata, la scelta di una terapia farmacologica spogliata del dialogo, dell’empatia. E il dolore dei genitori che spesso diventa vergogna di questo figlio diverso, in qualche modo sbagliato. E sentiamo pure il caldo che ci incolla i capelli e l’odore grasso della minestra e il sudore che bagna i materassi e tanfa l’ambiente con la puzza di piscio nei pannoloni eterni.

L’autore ci fa affezionare a questo gruppo di sbrindellati. Ci fa affezionare al sé ragazzo, fragile davanti a tutte le emozioni, incapace di affrontarle, di assimilarle. Per la miseria, Mencarelli, ti si vuole bene.

Lascia domande aperte sulla reale utilità di trattamenti di questa tipologia, così brevi per cambiare una vita, lunghi se non curativi, avulsi da un contesto che risucchia il ricoverato appena mette un piede fuori.

Lascia impotenti. Lascia pugni stretti, occhi umidi e labbra che tremano.

#ilibridihollyeponyo

 

“Vorrei avere una corazza, un’armatura del miglior ferro, capace di tenermi distante dalle cose, vorrei non disperarmi per la disperazione degli altri, non sentire la madre di Giorgio come mia madre, la vita degli altri saldata alla mia con un patto di sangue.” Pagina 52

“Eccola la mia ossessione, il mio desiderio patologico. Salvezza. Dalla morte. Dal dolore. Salvezza per tutti i miei amori. Salvezza per il mondo." Pagina 100

"Bastava talmente poco. Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una sola volta. Invece non lo hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani." P. 188

venerdì 12 novembre 2021

La casa degli sguardi, Mencarelli

 

LIBRO 34 - 11/2021

LA CASA DEGLI SGUARDI, DANIELE MENCARELLI, (2018), MONDADORI, 2019.

NO SPOILER

 

Quando ero adolescente mi raccontavano come i manganelli dei carabinieri provocassero danni enormi senza lasciare lividi troppo evidenti. “La casa degli sguardi” non è una badilata in faccia. “La casa degli sguardi” è come la leggenda metropolitana dei manganelli: qualche livido in superficie e stomaco e cuore a sbrindelli.

Ma negli occhi quintalate di meraviglia.

C'è un modo per discorrere delle malattie gravi nei bambini? C'è un modo per descrivere la morte, di un bambino? Parlare di una bara bianca con dentro una creatura che hai conosciuto a cui ti sei affezionato o di cui non conosci nulla, nemmeno il nome… C'è un modo per descriverlo quell’inferno lì?  Mencarelli intinge il suo pennino nel dolore che è un inchiostro di colore rosso cupo e un pennino che assomiglia più ad un bisturi.

Ma ci riesce, ci riesce benissimo Mencarelli e crea un protagonista (che forse non è per nulla personaggio) di un splendore disarmante. Un giovane uomo che si ferisce tanto con i petali quanto con le spine, che ha attraversato le peggiori dipendenze perché incapace a sopravvivere nella durezza e bellezza del mondo. Venuto al mondo senza gli strumenti per proteggersi, senza la corazza che permette ai nostri animi di arrivare al giorno successivo nonostante gli scontri, gli incontri, gli abbracci e le cadute.

Una sensibilità unica profonda perfetta che non trova un suo equilibrio nella vita reale.

“Si parli, semmai, di fragilità, di esseri nati con la pelle più sottile, un bassissimo numero di anticorpi a ogni bene e male del mondo, dal dolore alla tenerezza, malinconia e amore compresi”.

 

“La casa degli sguardi” lascia con gli occhi pieni di splendore come bisacce stivate per gli inverni aridi di bellezza, come chicchi di grano sulla nostra vita brulla, ma non lo nascondo, con il cuore sfasciato: è un gioco masochista è una lingua che batte continuamente sul dente che duole perché in mezzo a tanta sofferenza, raccoglie meraviglia, incanto.

Dicevo proprio stamattina ad un’amica-di-lettura che dai libri di Mencarelli mi aspetto sempre meraviglia, è solo la dose che cambia, perché è un essere dalla sensibilità fragile: è una di quelle “persone che le inchiodi con poco, basta un fiore per bucargli la pelle.”

 

Posso chiedere a babbo Natale che ne faccia scoprire una dozzina, di Mencarelli, per l’anno nuovo? Non di più però, che poi non ce la faccio a star dietro alle pubblicazioni…

 

“Ma la poesia lo testimonia il dolore, non lo cura. Le parole mi accompagnano da sempre, sono cristallo e radice, viaggio e lama, sono tutto, tranne medicina. La poesia non cura, semmai apre, dissutura, scoperchia.” Pag. 10

“La nostalgia arriva col suo macigno lanciato da lontano…” p. 21

 

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mercoledì 10 novembre 2021

Il ballo delle pazze, Victoria Mas

 

LIBRO 33 11/2020

IL BALLO DELLE PAZZE, Victoria mas, (2019), Edizioni e/o 2021, tradotto da Alberto Bracci Testasecca.

NO SPOILER


Lavora nel cinema, Victoria Mas, ed esordisce con questo romanzo che diviene un vero e proprio caso editoriale in Francia, due anni fa. E della cinepresa si percepisce la presenza, comunque, anche qui: la scrittura semplice, a tratti misera, ai miei occhi ha spesso evocato una sceneggiatura.

Il romanzo è un assaggio di quanto accadeva a fine Ottocento, quando delle malattie mentali si conosceva ben poco: se una donna era ritenuta da rinchiudere in manicomio anche per motivi veramente utili, per poco più che un capriccio maschile, isteria o malinconia e l’ospedale psichiatrico Salpetrière chiudeva i suoi portoni in una Parigi fredda, e tetra.

È una passeggiata tra ampi saloni, dormitori dalle alte finestre sui parchi questo romanzo. Si cammina tra i letti guardando le donne distese o sedute sui materassi, le si sente gemere, chiacchierare, ridere emettere versi.

Ci si muove consapevoli che alla Salpetrière si sa bene quando si entra, ma non SE si esce…

Si visita il manicomio da turisti, apprezzandone l'architettura e le scelte estetiche, soffermandoci sui vialetti esterni. Si entra in contatto con il burbero e distaccato medico, ildottor Charcot: l'uomo per il quale è stata creata la cattedra di neurologia e maestro di Freud. Si seguono gli esperimenti del luminare sulle pazienti, ricerca e mondanità, dove anche la cura diviene spettacolo, con crisi provocate sotto ipnosi davanti al pubblico… Si tasta con mano l'efficacia delle infermiere, si conoscono le alienate rinchiuse tra queste mura per i motivi più disparati: ci sono donne rinchiuse perché prostitute, altre perché realmente portatrici di una patologia mentale altre ancora perché hanno subito una violenza e non ne sono uscite, altre perché coltivatrici di idee scomode…

Le protagoniste sono due donne: un'infermiera che crede nella scienza e nell’efficienza come possibilità per raggiungere l’emancipazione e l’alienata Eugénie, borghese curiosa e determinata a scardinare il suo destino di moglie e madre sottomessa. Le due personalità sono cariche di forza emotiva, due donne diverse per età e per destino che le accompagna nella vita, ma accomunate da questo desiderio di essere persone complete, realizzate, a prescindere dalla già scritta sorte femminile.

Non ho amato particolarmente la scelta del disturbo che caratterizza la protagonista in quanto lontano dal mio sentire: non amo la letteratura che fa l'occhiolino all'ultraterreno, all’esoterico, ad un mondo irreale... Senza dubbio il personaggio è ben costruito, donna interessante, intraprendente caparbia con la voglia e la necessità di imporsi per cambiare la visione del mondo femminile che l'ha preceduta, così abituato a chinare il capo al patriarcato. Avrei però preferito una scelta più sobria e sostenibile.

 

Il tema del libro è l’evento annuale, il ballo, durante il quale la borghesia può entrare in clinica ed incontrare le “pazze”, il momento diviene l’emblema di questa cura/esibizione, dove gli animali da circo sono le figure femminili a cui è concesso, per un giorno, di sognare una vita normale, fuori dalle mura.

L’amaro in bocca, alla chiusura dell’ultima pagina m’è rimasto perché su molti aspetti la Mas è rimasta in superficie, come a presentarci oggetti piatti che rimangono a galla. Avrei preferito un’analisi più approfondita dei personaggi, per esempio, spesso bidimensionali, o delle dinamiche o delle cure…  è un libro ricco di scene visivamente forti e ben congeniate, pare proprio la base per il film (uscito nel 2021, che però ho letto non aver ricevuto recensioni a 5 stelle!), che guarderò, chissà.

#ilibridihollyeponyo

sabato 6 novembre 2021

Nel mare ci sono i coccodrilli, Fabio Geda

 

LIBRO 32-11/2020

Nel mare ci sono i coccodrilli, Fabio geda, Baldini & Castoldi (2010), 2013.

NO SPOILER


Quando leggiamo una biografia il nostro atteggiamento è diverso. Anche senza volerlo ci predisponiamo all'accoglienza della persona reale che siamo destinati ad incontrare e conoscere all'interno delle pagine. E con lo snocciolarsi degli eventi, con lo scivolare tra i capitoli, ci scopriamo a soffrire e a gioire con il protagonista. Viviamo una tensione reale, una sincera preoccupazione per quello che può accadere. Siamo consapevoli che il protagonista sopravvivrà in quanto è il narratore del romanzo Ma come? A quale costo? Questo ce lo svelano le pagine mantenendoci in uno stato di agitazione continua.

Fabio Geda ci racconta la storia di Enaiatollah, bimbo di una dozzina d’anni che rischia di essere ucciso, dai talebani e per evitare l’immotivata morte a cui sta inesorabilmente andando incontro, parte, con la mamma.

Un brevissimo romanzo con un impatto istruttivo difficile da percepire in quanto le informazioni sulla vita in Afghanistan e sulle modalità di fuga da un paese all’altro ci arrivano con leggerezza senza alcuna intento didattico. Ma ci arrivano e non possiamo fingere che non sia così. Geda cii sbatte in faccia cosa significa nascere in un posto dove nulla è scontato, nemmeno che un bimbo abbia il diritto di vivere.

Ho apprezzato la narrazione concreta diretta, a volte rude, altre naive. Ho adorato certi esempi meravigliosi: paragonare i sogni alla carota davanti al naso dell'asino oppure l'altezza di un bimbo a quella di una capra.

È un libro emotivamente pesante: gli accadimenti sono reali, questo fatto spesso strugge… Bisogna avere un certo stomaco ed occhi asciutti per sopportare la follia di alcuni trasferimenti a cui è sottoposto il protagonista. Racconti soffocanti, dolorosi, ricchi di ansia e paura perché la vita non si interrompa, che ha un qualcosa di primordiale; ma insegna l’accoglienza. Ci consiglia di ascoltare prima di avere un'opinione, a fare, ad aiutare prima che l'altro chieda. Leggerò di certo anche la continuazione anche solo per la curiosità di sapere come sta il resto della famiglia del protagonista al quale pagina dopo pagina ci si affeziona come un figlio.

E ricordiamoci sempre che afgano non è sinonimo di talebano.

 

#ilibridihollyeponyo

lunedì 1 novembre 2021

Pomodori verdi fritti, Fannie Flagg

 LIBRO 31 10/2020

Pomodori verdi fritti  al caffè di Whistle Stop, Fannie Flagg, (1987), BUR 2020.


NO SPOILER

Vi ricordate quando da adolescenti vi arrivava l'attacco di ridarella e vi sganasciavate dalle risate anche in pubblico? A me accadeva anche scuola durante una lezione, oppure sul pullman o in metropolitana, persino in casa con mia madre che mi guardava torva con quell'espressione “quando io l'ho partorita non era deficiente”. Ecco leggendo Pomodori verdi fritti vi capiterà la stessa cosa. Di nuovo, uguale sputata.

Dunque, io ero in sala d'attesa al centro trasfusionale dopo aver compilato il mio bravo questionario Aspettavo il mio turno per essere svenata. Ho letto un paio di passaggi del giornale della signora Dot Weems (un inserto che si trova all'interno del romanzo e compare ciclicamente) e non c'è nulla da fare: io rido. Non è che sorrido, no. Rido di gusto e non riesco a contenermi. La cosa diventa imbarazzante la gente mi guarda. Allora chiudo il libro e mi metto a scorrere Facebook, con tono decisamente più diplomatico.

Questo libro è un viaggio nella vita vera di un paesello americano, tra il 1929 e gli anni ottanta, fatta di gioie, malinconie, dolori, risate, morti, scherzi, nascite: una digressione sulla filosofia del vivere bene, di chi, la vita, sa prenderla dal verso giusto.

Le pagine scorrono su diversi piani temporali intitolata all'inizio di ogni capitolo con una data chiarificatrice: a volte c'è la descrizione di un accadimento, altre un estratto dalla pagina di un giornale locale, altre ancora è una donna anziana in una casa di riposo e racconta il passato dal salottino per le visite.

Narra la sua vita che fu, la signora Ninny, e quella di buona parte del paese. La trama è lo scorrere del tempo in un piccolo paese: Whistle stop nato attorno allo scalo ferroviario e ciò che accade in una famiglia e in un caffè, aperto dall’altra parte dei binari.

Le protagoniste sono donne molto diverse tra loro: le due proprietarie del caffè: Idgie maschiaccio, passionale, sguaiata, impulsiva e Ruth, moderata, calma, dolce, bellissima; la signora Ninny oramai molto anziana che risplende nelle sue peculiarità di donna dedita agli altri, riflessiva e vigorosa. Ed infine il bellissimo personaggio di Evelyn alla ricerca di se stessa e del suo posto nel mondo, allegra, simpatica e forte.

Donne molto diverse tra loro ma tenaci, capaci di trovare la loro strada e di seguirla con determinazione; figure da leggere nella coralità del racconto, perfette in queste differenze che si completano in un brano di vita, a più voci.

È un romanzo dove l'amore la fa da padrone, l'amore in senso lato: l'affetto per una persona anziana, il bisogno di aiutare un bambino disabile, la necessità di sfamare i mendicanti, proteggere i bisognosi e le persone di colore (nella prima metà del 900…) ma è anche amore di coppia a volte passione folle che fa compiere gesti inauditi, altre volte dolcezza quieta di un cuore che ti accoglie e custodisce da tempo, a volte impeto, a volte prendersi cura.

È uno spaccato Meraviglioso sull'America dei primi del 900 fatta di patii in legno dove sostare e riposarsi, di tavolacci dove trovarsi per giocare a carte e bere una birra; fatta di chiese e pastori che cercano di mantenere unito il paese, di ragazzini che hanno bisogno di lasciarlo, alla ricerca qualcosa di nuovo.

Un libro zuccheroso. Un libro che mette a posto l’anima, soprattutto se viene dopo letture strazianti. Vero, sincero, ma è anche una coccola.

 

Prima di lasciare il centro trasfusionale, col cerotto sul braccio e la sacca di sangue col mio nome sul carrellino, un’infermiera mi avvicina e sottovoce:

“Sto passando un periodo di fermo con i libri. Me lo daresti il titolo del tuo?” e mi strizza l’occhio.

#ilibridihollyeponyo

 

venerdì 29 ottobre 2021

Canne al vento, Grazia Deledda

LIBRO 30/2020

Canne Al vento, Grazia Deledda, (1913), Acquarelli 21010

NO SPOILER

Riuscite ad immaginarvi nella stanza di una Pinacoteca? Immersi nel silenzio, state passeggiando tra quadri antichi di paesaggi agresti. Millet, per esempio, potrebbe calzare. Le ambientazioni di Millet, con le descrizioni dettagliate, i cieli dai colori tenui, i campi coltivati così realistici da sentire le zolle di terra sotto i piedi, gli sfondi naturali, i contadini intenti a fare, immersi in atmosfere bucoliche. Le pagine di Canne al vento si sfogliano così: tra un quadro e l'altro.

Le raffigurazioni della vita sarda d’inizio ‘900 sono visibili, non solo leggibili. Si scorgono i monti, collocati a corona in fondo, si distinguono le valli, i paesetti più o meno arroccati. Le stradicciole e i tratturi. Le erbe, il vento che attraversa le canne, i profumi delle euforbie, i colori delle violaciocche, i melograni dorati che si spaccano al sole e lasciano cadere acini di madreperla. I porticati coperti dalla vite traboccante di grappoli d'uva. Le donne sedute con scialli neri o corpetti rossi, a filare, o ricamare. Il rosario. Il silenzio. La vecchiaia, il tempo che scorre inesorabile. Ora a sfondo ora in primo piano, questi quadri palpitanti, si svelano tra le righe.

Le tre nobili sorelle Pintor, attendono immobili che il tempo trascorra e l’arrivo del giovane nipote: sconosciuto atteso e temuto, accanto ad esse da puntello e nutrimento, la notevolissima figura di un servo devoto al limite dell’abnegazione.

Tra mura cadenti di palazzi dove l’antico splendore della nobiltà perduta è ormai una patina incrostata di bellezza avvizzita, dove il consumarsi del tempo si avverte nell’usura delle suppellettili, delle dimore, degli arredi, delle persone.

Le donne guardano lo sfacelo del loro patrimonio oramai dissipato e attendono il domani senza speranze e senza alcuna volontà. Solamente il vecchio servo sfinito, vecchio, malato, continua a sperare e a prodigarsi per un domani migliore.

La precisione con cui i personaggi vengono delineati e la dovizia di particolari che li caratterizza sia nell'aspetto esteriore (dalle rughe del viso, al bottone della giacca, alla trasparenza di un tessuto liso) che nell'aspetto interiore dal carattere (le paure, i dolori, le tristezze. Ma anche la passione che fa brillare gli occhi e la malizia che tira le labbra…) contribuiscono a creare figure talmente realistiche da sembrare note: il servo Efix, potrebbe essere un lontano zio, un po' antico nei modi, ma estremamente reale.

Ho gustato questo libro come faccio raramente: mi trovo spesso a divorare nella foga passare al successivo, anche quando mi trovo davanti a romanzi notevoli.

Di “canne al vento” ho percepito da subito la preziosità di ogni singola pagina, la necessità di fermarmi dinnanzi ad ogni raffigurazione apprezzandone la singolarità, ho trascorso mesi in questa Sardegna ruvida, mentre, parallelamente mi ingozzavo di altro.

Ho assaporato lentamente un quadro dopo l'altro, una pagina dopo l'altra, come le piccole caramelle che mia nonna si portava dal mare. Erano delle gocce dalla forma schiacciata, colorate. Zuccherine, da far sciogliere tra lingua e palato e attendere il lo spendersi del gusto, senza fretta, senza traccia di ingordigia.

È un libro attuale; un viaggio incredibile in una terra che non ho visitato ma è entrata spavalda nei miei progetti futuri, Sogno di girovagare attorno a Nuoro per calarmi in queste atmosfere cercando i paesaggi così minuziosamente descritti.

Quest'opera è un capolavoro immenso: sbroglia matasse tra uno spaccato rurale e una nobiltà orgogliosa che si sta sciogliendo al sole e parallelamente, gronda tradizioni, credenze popolari di magie e malocchio, bimbi mai nati, folletti e fate.

È questa terra, la vera protagonista ancestrale, evocativa, aristocratica e agreste.

ilibridihollyeponyo

mercoledì 20 ottobre 2021

L'Arminuta e Borgo sud, uno dopo l'altro

L’Arminuta, Donatella di Pietrantonio, Einaudi, 2017

Borgo Sud, Donatella di Pietrantonio, Einaudi, 2020

NO SPOILER


Anni fa, molti anni fa, capitava che passassi una notte con la mia nonna materna. E prima del sonno c’era il suo bel raccontare, al buio. Io rannicchiata nella cuccetta posta a fianco del lettone, ascoltavo i tempi lontani in cui mia nonna aveva una manciata d’anni e i capelli chiari.

Mi parlava, a volte, di certi bambini che crescevano dagli zii. Zii che non avevano figli, di solito, e che se la passavano benino, si prendevano l’ennesimo nato di una nidiata scheletrica e lo tenevano per un po’ o forse per sempre. La povertà nella nostra terra fiera tra montagna e lago poteva essere rabbiosa. Questi bambini a volte ritornavano che erano ancora piccoli, o da adulti, sempre con arie da signorini compassati.

L’Arminuta è la storia di una di queste bimbe che tornano: una ragazzetta di cui non si fa nemmeno il nome, che sale le scale di casa con le sue scarpe a ciondoloni in una borsina. Borgo sud è la stessa bimba, oramai adulta che cerca un posto nel cuore del mondo. È anche la storia di un legame tra due sorelle che si scoprono necessarie l’una all’altra.

Sono libri intrisi di tristezza. Scorri le pagine con un qualcosa di aguzzo uncinato nello stomaco, sperando che non accada altro di brutto, di peggio. Ma è una tristezza dolce, malinconica, che mette speranza in un domani migliore, voglia di rivalsa mentre ancora si deglutiscono lacrime. Forse è una trama facile, che si accaparra il lettore sensibile, trascinandolo a fianco di una bimba povera ma strepitosamente intelligente, ripeto, forse è facile, è vero… ma sarà che c’ho ritrovato i racconti di mia nonna, la storia è storia credibile. Ed i lutti che arrivano nello scorrere, non punteggiano forse tutte le nostre vite, tra una pausa di sereno e l’altra? 

Senza dubbio l’inchiostro con cui l’autrice ha dato vita a questi romanzi era misto a lacrime e sangue. E la scrittura: così leggera e curata, a volte mista ad un dialetto scabro, a volte arricchita da un passo poetico o una citazione, mai forzata né in una direzione né nell’altra, mi è parsa perfetta per questo narrare.

Una parola sui personaggi: sono descritti quasi esclusivamente dal lato che dà sulla protagonista, ma dotati, esplicitamente, di quella parte oscura di luna che non le è dato vedere. Perfetti, nel loro intrecciarsi, come un girotondo a cui la protagonista partecipa sempre (anche suo malgrado), dove vede bene i visi e mai le spalle…

Certe istantanee restano fisse nello sguardo: l’abito di Adriana con le conchiglie vere appuntate sul corpetto che si gonfia alle folate di vento; la guaritrice centenaria seduta sotto l’ombra di un’antica quercia ad accogliere i bisognosi in fila, il piatto di rigatoni lanciato contro la parete e l’alone unto che ne rimane…

Mi sono appassionata a questo spaccato di storia e di mondo, a queste vicende, ai personaggi. Ho sofferto e fatto il tifo. Ho gioito, mi sono preoccupata e addolorata.

E ho ripensato alla mia nonna triste con gli occhi cerulei, ed è stato bello.


 

 

mercoledì 13 ottobre 2021

L'appello, D'Avenia

 L’appello, Alessandro D’Avenia, Mondadori, 2020. 

(NO SPOILER)

 

Fosse stato lo script per una rappresentazione teatrale, “L'appello” mi sarebbe parso perfetto. Già mi immaginavo i ragazzi vestiti di nero alzarsi su uno sfondo bianco, ripetere il proprio nome ad alta voce, poi snocciolare dolori e peculiarità di fronte alla classe e a tutta la platea. Sullo sfondo una cattedra con un professore dagli occhiali scuri

Ma non è così. 

“L'appello” è un romanzo. Il protagonista un professore cieco. Davanti a lui una classe sgangherata nell’anno della maturità. I ragazzi, lungo le pagine del libro, si raccontano, al momento dell'appello, seguendo, come fil rouge uno specifico tema proposto dall’insegnante. L'idea è indubbiamente vincente, alle prime pagine ero folgorata. Però qualcosa inizia, in breve tempo, a non funzionare, a mio avviso, il meccanismo s’inceppa. 

Immaginarsi giovani sui 18 anni che si alzano davanti a tutta la classe, (non solo ad alcuni compagni selezionati), per presentare se stessi a nudo, esponendo il cuore pulsante su un piatto d'argento... Lo trovo difficilmente accettabile... Sono dispiaciuta perché nelle prime pagine il tema mi aveva conquistata, ero incuriosita e colpita. 

Ai miei occhi la trama cade proprio in questi non piccoli inciampi: non credo possibile, per esempio, che una ragazza possa alzarsi e raccontare la sofferenza di un aborto davanti ad una classe che conosce da poco… C’è chi descrive madri picchiate, chi lutti laceranti che portano incubi, padri che tentano il suicidio…Si crea un intreccio forzato, una maglia di dolori immensi sbattuti sul tavolo, in un mondo pubblico per nulla verosimile. 

Certo: possono accadere momenti di grande comunione e inclusione in una classe, ma non ripetutamente e non così profondi, imposti a bacchetta a risposta di un tema esterno e in modo quasi gratuito.


Il continuo intrecciarsi di concetti scientifici, ora astronomici ora chimici ora fisici, alla vita vera, a creare una credibile miscellanea è all’inizio davvero intrigante, poi stanca infine pesa...

Ne viene fuori un libro greve, farcito di nozioni allacciate alla realtà in modo più o meno probabile, ritmato da monologhi ripetitivi, ridondanti, dialoghi che si reiterano uguali a se stessi, grondanti clichè.

Senza dubbio è interessante il processo a cui vengono sottoposti la scuola e i metodi educativi in generale, ma le opinioni spesso estreme, i protagonisti che sono personaggi più che persone, rendono il romanzo faticoso impantanato nelle frasi ad effetto; il tutto è appesantito ulteriormente dalle domande retoriche, frasi fatte, richieste illogiche, spiegazioni che spesso sfociano in un arido pontificare.

I personaggi hanno contribuito a rendermi difficile la lettura nella loro poca credibilità: persone spesso bidimensionali raffigurate come i buoni e i cattivi in un gioco tra cowboy e indiani che lascia l'amaro in bocca. La figura del professore protagonista in primis, in me ha risvegliato soprattutto sentimenti negativi. Ho fatto fatica a soffrire con lui: la compassione viene soffocata dal suo carattere egoista, egocentrico e spocchioso soprattutto con gli adulti, incapace a mediare.

 Il mio livello di aspettativa all'inizio del libro era alto in quanto l'esordio lo ritengo interessante e da D’Avenia mi aspettavo una scrittura eccellente…

Invece no. Non mi è piaciuto, mi sento proprio di dirlo.

Consiglierei questo libro solo a chi è incuriosito dai problemi che incancreniscono il sistema scolastico: è senza dubbio un testo colmo di idee, proposte ed entusiasmo, inoltre cerca di spostare l'attenzione dall’erudizione sterile alla passione per la cultura, mettendo al centro il vero soggetto: i ragazzi.



 “la realtà è un intreccio di cose che accadono e vivere è imparare ad ascoltare, perché le cose e le persone si rivelano solo quando dai loro il tempo di cui hanno bisogno per raccontare la propria, il tempo che ci vuole a spogliarsi senza provare vergogna.” P. 11



“Decisamente le relazioni sono fatte come i puzzlle, solo con gli incastri nei vuoti si stringono legami veri.” P.35

mercoledì 6 ottobre 2021

Un giardino umido

Pausa dalla pioggia continua, giusto il tempo di scoprire quanti funghi hanno fatto capolino in giardino...  nell'attesa del sole, oggi mi  diverto un po'!

martedì 5 ottobre 2021

Quando le montagne cantano

 

Quando le montagne cantano, Nguyen Phan Que Mai, traduzione Francesca Toticchi, casa editrice Nord 2021

NO SPOILER



Avete mai visto un sacco di mele, quando lentamente s’inclina e i globi iniziano a sgusciar fuori uno dopo l'altro inesorabilmente ed a un cadere a terra con tonfi sordi. Ecco, è così che il dolore viene a galla tra le pagine di questo romanzo: con frutti rossi e gonfi, sugosi che ti rovinano tra i piedi spaccandosi, uno dopo l'altro in una sequenza continua e casuale: si ammaccano e vanno in frantumi e sono vite e sono cuori e sono sogni.


Quando le montagne cantano
è un dipinto ad acquerello, un tocco delicato, curato; raffigurazioni umane si mescolano a paesaggi ora abbozzati ora evidenziati da dettagli nitidi tra tinte pastello e brume.

È la storia del Vietnam, quella che viene descritta attraverso lo snodarsi delle vite dei protagonisti. Una saga familiare che prendi il via, come un albero genealogico, dagli avi della nonna, voce letteralmente narrante alla sua piccola nipote, la protagonista.

Le due donne si tengono per mano lungo tutto il libro che è un lento incedere nel domani (per entrarvi e conoscere) ed un altrettanto costante regredire in ciò che fu (per sapere e ricordare). In equilibrio si sostengono: volteggiando sulla bicicletta, oppure all'interno di un bunker tra gli scoppi delle bombe o ancora in salita su un pendio scosceso a cercare rifugio o tra le gli arbusti odorosi di giardini fioriti o tra le pagine di un romanzo americano o tra corpi a brandelli e macerie. E’ un viaggio tra città e foreste e paesi. L’incontro con gente semplice che insegna l’affetto a proverbi e grandi maestri che leggono romanzi occidentali e parlano lingue dell’Europa. Fratelli, sorelle, figli, padri: famiglia.

La storia del Vietnam viene narrata per quello che è stata veramente: il continuo passaggio da un usurpatore all'altro, ora erano i giapponesi a mietere vittime ora gli americani che cercavano di imporsi, o i cinesi; il giardino paradisiaco del Vietnam è stato così conteso da uscirne diviso persino a se stesso. I suoi stessi figli divengono nemici: dal sud  i filoamericani in battaglia contro i compatrioti comunisti del Nord, in una guerra di odio contro chi si ama, chi ci ha generato.

La vicenda delle due figure femminili si snoda ferma e colma d’inciampi com’è la vita, attraverso varie generazioni legate da morti, dolori, soprusi, ma anche da un’immensa voglia di vivere e bisogno di rivalsa. I giorni toccano la guerra ora in punta di dita ora infilando le mani nel putrido, ma le donne si sorreggono, rimanendo in perfetto equilibrio durante tutta l’elegantissima danza macabra.

 

“Un boccone condiviso quando si è affamati equivale a un piatto colmo quando c’è abbondanza.” Pag. 24

“Le foglie sane aiutano quelle strappate. “ Pag. 24

#ilibridihollyeponyo


martedì 21 settembre 2021

Fiore di Roccia, Ilaria Tuti

Fiore di roccia, Ilaria Tuti, Longanesi, 2020

(NO SPOILER)

Fiori di roccia è uno di quei romanzi che paiono più ricamati che scritti: un filo prezioso, sottile, traccia le parole una di seguito all'altra con una precisione delicata ma esatta. E' una scrittura lirica, evocativa: una voce che può essere solo femminile. 

La storia è scabra, dura affilata e sbrecciata, come le rocce tra cui si ambienta; una vicenda vera da cui è stato tratto un romanzo vicinissimo alla realtà degli anni della prima guerra mondiale, in Friuli, su vette di confine. È la storia di donne di montagna, contadine dal cuore tenero, dolce ma chiuso sotto scorze dure di lavoratrici sfinite. 

Fiore di roccia è la stella alpina così delicata, così bella e così tenace. Un fiore di roccia è ognuna di queste donne che accetta l'incombenza più pesante richiesta dalla guerra: divenire veri e propri animali da soma. Con i piedi fasciati nei leggerissimi scarpetti con le gonne ricamate e i grembiuli, i capelli raccolti e le gote rosse, queste donne, fanciulle e bambine si inerpicano tra rocce affilate e sentieri disegnati nella memoria più che tra le erbe, tra rovi schegge di pietra o ghiacci acuminati.

Salgono per portare i rifornimenti ai militari posizionati negli avamposti più alti dove nessuno riusciva a giungere. Gerle sulle spalle con fibbie in cuoio che incidono la carne queste donne trascinavano carichi di: munizioni, armi, cibo, abbigliamento, medicinali, lettere, che altimenti non sarebbero mai arrivati ai giovani alpini disseminati tra i monti a proteggere dal nemico austroungarico. 

Scendono poi altrettanto cariche, di ragazzi morti, per i quali, al paese, scavare buche e recitare preghiere.

Carichi troppo pesanti per le spalle ma non abbastanza da piegare l'orgoglio.

Una storia vera, di sfinimento, di fame, di paura e dedizione. Una storia che è amore per la Patria e per questi uomini che divengono figli fratelli innamorati, uomini di cui prendersi cura nonostante la fatica disumana necessaria. 

E sono questi scarpetz un pezzo di cuore della storia: cuciti a mano dalle donne, di notte,  formati da strati di pezze sovrapposte, stoffe rubate agli abiti belli per calzare i piedi degli amati alpini in guerra per garantire  silenziose incursioni vittoriose. 

Silenziose come le montagne, come queste donne e i loro cuori tenuti a tacere.


Per non soffrire troppo.


"A volte penso di essere anch'io una gerla: scortecciata dalla vita fino a che è rimasto solo il necessario, incisa da perdite, spellata dal bisogno."

venerdì 17 settembre 2021

Shantaram, Roberts

 Shantaram, Gregory David Roberts, Neri Pozza Editore, 2005. (NO SPOILER)

Shantaram è una bustina da te: il tempo dell’immersione e inizia la magia. 

La magia del viaggio.

È un vero e proprio viaggio dei sensi, Shantaram. Se riusciamo a lasciarci andare, saranno i profumi a trasportarci: di spezie nei cibi, nei mercati, sulla pelle e tra i capelli delle donne. Sopporteremo il tenace puzzo dello slum con le sue fogne a cielo aperto, del corpo di uomini ammassati nelle prigioni, del sudore che bagna le vesti. Ascolteremo risa, musiche, canzoni, tintinnio di bracciali e cavigliere. Assaggeremo riso e berremo tè fino a non volerne più, proveremo il sapore metallico del sangue, del latte caldo, o di pezzi di carne quasi putrida. E sentiremo le nostre dita secche, ghiacciate, fredde oppure sudate. E anche le droghe ci fporteranno in viaggi tra brume e nebbie ovattate.

Sarà un continuo turbinio dai lustrini e campanelli di Bollywood alle tinte tenui dei monaci, dalle tonalità indefinite degli abiti dei poveri ai colori sgargianti del cielo. Shantaram è tutta l'India.

Shantaram è un viaggio dentro gli occhi delle persone. Occhi dolci amorevoli sorridenti oppure astiosi arrabbiati occhi tenaci occhi sopraffatti, occhi tristi, occhi svuotati dal dolore o ebbri d'amore. Occhi che raccontano nei silenzi.

Shantaram è il viaggio in India e viaggio dentro il protagonista. Si segue la sua evoluzione passo passo da occidentale a uomo dalla “faccia bianca, cuore nero” “ho la pelle bianca, fratello, ma il cuore è assolutamente indiano”.


Sono1200 pagine che volano, immersi in un viaggio reale e spettacolare come in vacanza, quando alla sera ci si ripete che è già trascorso un altro giorno

Le ultime 300 pagine mi sono un pochino pesate: gli eventi che si susseguono uno dopo l'altro in modo caotico, frastornante e iniziano a stancare le emozioni. Al protagonista accadono pagine di meraviglie ed eventi incredibili (anche incredibilmente orribili, atroci), Quasi per caso: come se fosse sempre in prima fila ad assistere allo spettacolo, fino a divenirne, ogni volta, protagonista. Dopo 800-900 pagine intrise di eventi spettacolari ci si sente quasi tirati per il naso. Scherzando ho raccontato più volte che nelle ultime 300 pagine mi aspettavo l'ingresso trionfale persino di Babbo Natale.

Ma è un libro che va letto, anche e soprattutto perché emotivamente coinvolge (a volte devasta: ci sono morti che fanno così male, da chiudere il libro come in lutto). Gli errori che il protagonista continua razionalmente e consapevolmente a fare, scatenano nel lettore impressioni forti. Si vorrebbe poter fermare questo uomo, poterlo consigliare, aiutare redimerlo (in qualche modo). Eppure lo si guarda sbagliare più e più volte rimanendo al suo fianco come si farebbe con un caro amico


Ultima cosina: la descrizione minuziosa dei personaggi. Estremamente dettagliati, definiti e credibili, arrivi a vederli, ti pare di incrociarli per strada!  Alla fine mancano, ne soffri fisicamente! A qualcuno ci si affeziona pure in modo particolare, per me è stato il caso dell'indiano Prabaker il cui sorriso mi ha accompagnato anche dopo aver chiuso il libro…

domenica 12 settembre 2021

Danimarca, Agosto 2021, diario di viaggio

Danimarca – Agosto 2021

7 Agosto 2021 Sabato (viaggio):

 Partenza da Sovere (BG) ore 17: 30 direzione Edolo, facciamo l’Aprica, entriamo in Valtellina. Poschiavo, troviamo tempo orribile sul Bernina, con pioggia battente e visibilità a zero. Stremati dall’impossibilità di guidare il nostro bestione alle 20.30 ci fermiamo dopo Saint Moritz, ci facciamo giusto un tè (visto il pranzo luculliano) e in breve ci mettiamo a dormire.

 

8 Agosto Domenica (viaggio): Sveglia alle Viaggio stop a Ulm (non perdiamo tempo nei dettagli) a pranzo e notte in autogrill.

 

9 AGOSTO Lunedì (giorno 1 di vacanza):  

Alle sette lasciamo l’area di sosta e ripartiamo preoccupati: ci mancano ancora quattro ore di viaggio e troveremo di certo code e lavori. Così accade infatti… Restiamo pure completamente fermi per mezz’ora. L’autostrada 7 in Germania è un disastro. Arriviamo all’imbarco verso le 13.30. Ci prepariamo un panino farcitissimo mentre facciamo i biglietti. Pranziamo in camper ci imbarcano! Il traghetto parte alle 14:15, arrivo in Danimarca alle 15.00 inizia il viaggio!

Primo stop alla chiesa Fanefjord Kirke alle 16.30, scopriremo poi che la tipologia delle chiese è sempre molto simile, questa è interessante perché gli affreschi all’interno sono notevoli.

    

Sarò sincera, alcuni anche buffi, divertenti! Il complesso però, col suo piccolo cimitero attorno e la vista ampia, merita la fermata. A seguire facciamo un giretto a spiare la baia in camper, ma non ci dice molto, puntiamo a fare la spesa, passiamo attraverso un paesino pittoresco: Stege, decidiamo di fermarci al ritorno. Arrivati a Mons Klint, andiamo oltre il centro scientifico e parcheggiamo in un ampio slargo, pronti a passare la notte nel bosco.

Sgambiamo i cani. Ponyo decide di farsi un bel bagno di fango. Laviamo Ponyo, Giulia fa allenamento sugli aghi di pino, Sergio cerca info x domani, io preparo la cena. Alle 21.30 ceniamo. E ci mettiamo a letto presto: vogliamo vedere la scogliera all’alba!

 

10 AGOSTO Martedì (giorno 2):  

Sveglia alle 6 ma: piove, ci riaddormentiamo. Sveglia alle 7, il tempo regge, alle 7:30 siamo tutti fuori, i cani no. Percorriamo un sentiero nel bosco fino al centro scientifico e da lì prendiamo il percorso n°4 con la sua scaletta di circa 500 gradini, ci sono un paio di punti panoramici interessanti. Arriviamo sulla riva. È forte il contrasto tra il verde del mare, i ciottoli grigio neri e le scogliere bianche. Mons Klint ci lascia a bocca aperta!

   

Nidi di rondini appiccicati sul gesso chiaro, uccelli che garriscono e sfrecciano. E rumore di onde e ciottoli. Non c’è nessuno, solamente noi. Ed è bellissimo!

         

Arriva il sole che colpisce le pareti di roccia e le rende candide: magnifiche, il biancore in certi punti è accecante. Noi scegliamo di percorrere la strada che dal termine della scaletta gira a destra. La scelta è quasi casuale: abbiamo notato che in quel punto le rocce hanno dei nomi, mentre a sinistra no. Arriviamo fino alla scaletta del sentiero numero 5 e torniamo su, per tutti i 500 gradini, con le debite pause!

Rientriamo in camper felicissimi e vediamo che la gente inizia ad arrivare e parecchia!

Siamo soddisfatti della scelta: scendere di mattino presto ci ha permesso di godere dello spettacolo naturale completamente da soli!

Ci godiamo una colazione con pane e dolci tipici (comprati ieri) dal gusto così strano, sgambata per i cani, (un daino mi attraversa il sentiero ad un paio di metri di distanza!) pulizia camper e ripartenza alle 12.00- Arriviamo alla piccola isola di Nyord in breve tempo. L’accesso è tramite un ponte e la strada stretta è immersa nei campi di grano che finiscono in mare. L’isola presenta subito il suo fascino bucolico. Parcheggiamo e facciamo un giro a piedi nel paesino e sulla costa. Vento e cielo a nubi, l’erba è di un verde tenero, tutti i giardini fioriti, con lillà, zinnie e campanule… Le case hanno spesso il tetto in paglia.

      

Dalla chiesa la melodia di un trombettista che sta facendo le prove. Il piccolo porto è schiaffeggiato da raffiche di vento e il molo ondeggia parecchio!

Pranziamo in camper. Dopo aver fotografato una vanessa atalanta che svolazzava sul ghiaino del parcheggio partiamo, alle 14:45. Arriviamo alle 17:15 a Stevnst klint dopo una merenda dolce (proviamo anche la tipica torta di Mazarino, troppo amarettosa per i miei gusti), parcheggiamo al faro, che è già chiuso, ma non l’avremmo comunque visitato, preferendone altri più a nord. A destra del faro parte una bella passeggiata che nel giro di un paio di chilometri scarsi, porta alla famosa chiesa parzialmente crollata.

Tutta la passeggiata è sulla cresta della scogliera ma, non lo si percepisce, perché protetti da un susseguirsi di arbusti che crescono proprio sulla sommità. La chiesa è chiusa per un evento che avrà luogo in serata, ne siamo molto delusi, da fuori si percepisce davvero poco del crollo che ha subito e non si riesce avere una chiara idea del danno… Scegliamo quindi di scendere al mare per apprezzar le falesie dal basso. La scala è decisamente più breve rispetto a quello fatto in mattinata (saranno 100 gradini in tutto), il percorso abbastanza corto, termina con una scalinata in ferro molto ripida, davvero poco inserita nel contesto.

      

Il tutto ci delude un po’, forse l’esperienza del mattino ha alzato troppo le aspettative… le rocce presentano però una stratigrafia molto più evidente, facile da percepire, interessante!  Però risultano meno bianche, meno “splendenti” e soprattutto meno imponenti. Ci sono cuscini di alghe maleodoranti più ampi, che rendono il tutto meno spettacolare. Rimane comunque davvero apprezzabile, fosse anche solo lo sciabordio delle onde sui ciottoli scuri.

Rientriamo passando dal sito dell’esercito inerente la guerra fredda: gli edifici di accoglienza vicino al faro, una postazione bunker, alcuni spiazzi delimitati dove alloggiavano missili e poco altro. Anche per questo sito, in realtà, ci aspettavamo di più…

Ripartiamo in tempo per comprare pane e latte per domani. Ceniamo e via verso Koge.

Arriviamo alla cittadina in breve tempo e alle dieci di sera siamo in piazza. Tutto è deserto. Ogni via, ogni vicolo, non c’è in giro nessuno. Vediamo la casa a graticcio più vecchia di Danimarca, ora parte della biblioteca comunale.

Ci fermiamo ad osservare svariate case a graticcio davvero pittoresche, anche alcuni negozi, logicamente chiusi, hanno vetrine particolari… ma nessuno è fuori casa. Troviamo giusto un paio di bar con pochi avventori, il resto è il deserto interrotto solo da chi porta a passeggio il cane.

Rientriamo in camper verso mezzanotte e partiamo in direzione di Solrod Strand, a 10 chilometri, con l’idea di fermarci per la notte.

 

11 AGOSTO Mercoledì (giorno 3):  

Sveglia poco dopo le sette, esco a fare un giro lungo la spiaggia di Solrod Strand con i cani. Il paesaggio è perfetto per me! Spiaggia bianca con erbe e cespugli quasi fino al mare, un molo con due pescatori e nessun’altra anima viva all’orizzonte, acqua bassa. Camminando vedo persone arrivare in bicicletta, mollare il mezzo e i quattro abiti e tuffarsi in mare. Vuoi perdere l’occasione di bagnarsi nel Baltico? Torno in camper e Sergio accetta al volo! Via a corse sul piccolo molo e scendiamo dalle scalette dritti nell’acqua non gelata, ma quasi. All’inizio la sensazione è davvero da brividi con blocco della respirazione, ma poi ci si abitua: qualche bracciata il freddo se ne va ed è un’esperienza davvero da provare, ce la ricorderemo!

Ci asciughiamo alla bell’è meglio e via, verso l’area camper “city center” di Copenaghen.

Che delusione! 40 € a notte… Io non ho mai troppe pretese, ma così: niente ombra, una spianata erbo/fangosa. 10 cm di fango all’area carico acqua con la canna che pare uscita da un’esercitazione militare. Niente scarico a terra per il wc nautico, bel problema! Sergio si arrangia con la solita tanica, grrrrrr! I servizi e docce sono molto spartani, su container rialzati. Niente altro e niente lavatrice, io ci speravo tanto!

Dopo pranzo, inforchiamo le biciclette e via! Destinazione Copenaghen!

Dal campeggio in 15 minuti siamo in centro, puntiamo subito alla Sierenetta, ci pare giusto iniziare col simbolo della città, poi la fontana di Gefion simbolo della nascita di Zelanda (si narra che la donna chiese al re di avere della terra da coltivare. Il re le concesse quanta ne avrebbe arato in una notte. Lei tramutò i suoi figli in buoi e passò tutta la notte ad arare! La terra che ottenne si gettò in mare divenendo appunto l’isola di Zelanda).

Ci dirigiamo poi al quartiere di Nyhavn dove parcheggiamo le biciclette e passeggiamo lungo il canale. Le facciate multicolore, i bar di legno antico al piano terra, le bizzarre imbarcazioni ormeggiate, rendono l’intorno davvero incantevole.

Ci fermiamo a prendere una birra in un barettino, i prezzi sono decisamente alti, ma ce lo concediamo.

Dopo lo stop, torniamo verso il camper visitando Christiania. Che shock! Sapevo di un angolo di mondo con regole sue, dove peace and love e Hippie e… ma i banchetti per la vendita di erba al dettaglio, non me li immaginavo nemmeno lontanamente! E la marijuana coltivata nelle aiuole e sui terrazzi, da non credere!

Abbiamo passeggiato un po’, scelto un locale carino dove forse torneremo, visto un’esposizione di artisti di una scuola milanese (!!!), osservato murales, cartoline, ambienti graziosi e mucchi di sporcizia, aree autentiche e pittoresche, altre sporche, imbrattate, lerce.

Ma credo sia anche questa dualità, il suo bello. Alle 18.00 torniamo in camper che i cani e Giulia hanno bisogno di sgambare.

Verso le nove ceniamo e decidiamo di passare la serata in camper.

 

12 AGOSTO Giovedì (giorno 4):

Giornata interamente dedicata alla città. Alle 9,30 usciamo, puntiamo al castello di Rosenborg che conferma l’apertura alle 11, dunque scegliamo subito di andare al giardino botanico e serre. Il parco esterno è meraviglioso, peccato avere poco tempo… sarebbe bello avere mezza giornata da trascorrere leggendo un romanzo sulla riva del laghetto con ninfe e anatroccoli. Facciamo il biglietto cumulativo di vari musei, dunque entriamo nella serra delle palme e trascorriamo un paio d’ore tra piante dalle provenienze più diverse: dalle aree calde e secche di cactus e succulente, agli ambienti umidi e nebbiosi delle foreste tropicali. L’edificio è notevole, con le scalette a chiocciola in ferro bianco, per accedere alla cupola (umidità e caldo insopportabili) per vedere dall’alto la vegetazione rigogliosa. Merita.

   

 

Poi la serra delle farfalle ci lascia davvero senza parole. Ho visto altre realtà dedicate alle farfalle, ma niente di paragonabile! Una moltitudine sfarfallante sulle lantane rosa o arancioni, sfreccia senza paura e si appoggia sulle braccia o sui capelli, un sogno!

       

Subito rientriamo in camper. Dobbiamo fare compagnia alle belve: soffrono la città! Pranziamo, ci riposiamo un po’ ma via nuovamente, alla volta del museo di scienze naturali, per conoscere Tristan Otto: lo scheletro di T rex completo al 70% esposto al piano terra. Il museo è davvero ben allestito. Ci colpisce la scelta delle musiche e dei suoni di sottofondo, interessanti i video esplicativi, forse un pochino brevi e superficiali, ma utili. Le didascalie sono ben fatte, tutto anche in lingua inglese. Altri scheletri di dinosauri sono esposti, oltre al T-rex che è davvero magnificente.

  

 Al piano primo, oltre alla collezione di pietre che degniamo giusto di uno sguardo, c’è l’esposizione delle fotografie world award natural photograpy. Ci spendiamo almeno un’ora ad ammirare scatti notevoli negli ambienti più diversi: tigri, meduse, formiche, orsi polari, stambecchi… anche di artisti giovanissimi (e due tra i vincitori sono italiani!!!).

 

Dopo il museo avremmo voluto fare un salto al Hard Rock caffè, per la maglietta di rito alle ragazze, ma è momentaneamente chiuso Delusione… Dunque abbiamo comprato una bevanda di Starbucks e un dolce. Poi siamo tornati in camper. Lunga sgambata alle bestiole: un’ora a corse, io sono stanchissima! Relax, una mezz’ora, cena e fuori di nuovo, per vedere Copenaghen di notte.

Passeggiata di tre ore. Percorriamo pure Stroget: la via dello shopping più lunga d’Europa, i negozi sono chiusi ma le vetrine accese e tutto è vivibilissimo!

Che bellezza, le strade, di notte sono uno spettacolo di colore, soprattutto questa settimana che c’è il pride: edifici illuminati con i toni dell’arcobaleno, punteggiano la città come fuochi artificiali! Noi camminiamo e camminiamo per ore. Sono proprio contenta di essere uscita, nonostante la stanchezza!

Rientriamo. Cani. Sonno.

 

13 AGOSTO Venerdì (giorno 5):

Partiamo in bicicletta alle 10:30 per andare a vedere il castello di Rosenburg. Prima facciamo una piccola pausa souvenir, nella via delle facciate colorate a Nyhavn.

Il castello. Causa covid tutto l’appartamento al primo piano era chiuso. Dunque dell’edificio in sé abbiamo visto il piano interrato con i gioielli della corona, il piano terra, con alcune stanze private maschili e il secondo con il salone delle danze- sala banchetti.

Ho apprezzato moltissimo, a quest’ultimo piano, il gabinetto delle ceramiche e quello dei vetri. I gioielli (nel seminterrato), come tutte le guide sottolineano, valgono da soli la visita.

Il parco all’esterno è davvero accogliente, di nuovo mi dispiace dover correre dai cani per farli uscire un po’… preferirei riposarmi nel parco e riprendere la visita. Invece torniamo in camper e ci fermiamo per il pranzo ed un po’ di riposo. Inforchiamo nuovamente le biciclette alle 16:30, per fare un giro panoramico del centro. Passiamo da Amalienborg, ci fermiamo in piazza per osservare le architetture e le guardie col cappello altissimo. Arriviamo alla Marmorkirche nel momento della chiusura, salutiamo la statua di Kirkegard, un po’ dispiaciuti, passiamo davanti alla chiesa russa ortodossa per ammirare le campane a vista e le cupole d’oro. A seguire arriviamo alla Rundetarn, siamo saliti! Che forte! Una rampa dolce sale fino ad un’altezza di 25 mt e poi, tramite scale va oltre, fino ad una terrazza magnifica sulla città. Durante la salita, vari step fanno riprendere fiato: una mostra di tappeti e borse di una attività coordinata tra designer danesi e donne, artigiane della Guajira; poi si visita una sala dei “ricordi”: vari rimandi alla torre nella storia. C’è anche la possibilità di entrare nel nucleo cavo della torre, tramite un pavimento di vetro, si possono vedere i 25 mt di buco che determina lo zero geografico della Danimarca. Anche l’orologio astronomico merita una tappa, posto quasi alla sommità…

Dalla terrazza esterno, in alto, una bellissima vista sulla città

Girellando in centro, troviamo in Rodhuspladz il pride, ci entriamo subito e veniamo assorbiti dal mondo colorato e festoso dei partecipanti, per un po’ ci facciamo trasportare dall’energia esuberanza, eccentricità e dall’entusiasmo di questi sogni e ideali.

 Affamati ci concediamo una pausa Mc Donald’s, assaggio il panino vegetariano: buono, ma quello di Burger King è meglio. Facciamo qualche fotografia in braccio ad Andersen (statua scovata da Giulia direttamente dalla finestra del fast food).

       

Prima di rientrare passiamo in due vie veramente uniche: Magstraede e Snaregade, le due più antiche della città; pare di entrare in un paesello, non di attraversare la capitale! In camper Facciamo correre i cani e lasciamo Copenaghen.

Arrivo a Rungstedlung in tarda serata, parcheggiamo alla marina, troviamo corrente e acqua, chiediamo informazioni, sono gratuiti!

 

14 AGOSTO Sabato (giorno 6):  

Rungstedlung (casa di Karen Blixen) Non troppo presto, facciamo un bel giro sul porto con i cani. È davvero grande e affollato! La giornata è nuvolosa, di mattino c’è un certo venticello fresco. Facciamo una corsa al supermercato per comprare il necessario per colazione ed un pranzo veloce, poi di nuovo a passeggio con i cani. Entriamo alla casa di Karen Blixen appena apre: alle 11. Qui gli orari lavorativi sono così diversi rispetto all’Italia, certo che vivono meglio, ma per il turista è una corsa contro il tempo! La visita è davvero emozionante. L’edificio è semplice, elegante ma non sfarzoso, contenuto, con una piccola cucina, una bella sala da pranzo e la camera da letto della scrittrice. L’allestimento è rimasto quello degli anni in cui la Blixen ci viveva, al ritorno della sua permanenza in Africa. Molto toccante! Trovare poi lettere, biglietti e manoscritti, persino il menù del pranzo di Babette appeso in cucina; è stato davvero coinvolgente.

     

    

Oltre alla casa è notevole anche il parco con lo stagno, i boschetti e il piccolo giardino fiorito, le panchine, i nidi per gli uccellini e soprattutto il faggio con la tomba della Blixen. Una visita da non perdere.

Un breve trasferimento, un pranzo veloce ed entriamo a Humlebaek al museo Luisiana che, contrariamente a tutto quello che abbiamo visitato fino ad oggi, chiude alle 18:00. L’architettura è davvero notevole, la posizione a picco sulla costa è mozzafiato. Però le temporanee che abbiamo trovato non ci hanno proprio entusiasmati, ci hanno lasciati un po’ scocciati, abbiamo visto artisti davvero poco noti e alcuni anche di dubbio gusto.

Le permanenti: Giacometti e un’installazione di luci colorate molto avvolgente sono davvero notevoli, pure il pollice alto un metro e ottanta ci ha incuriositi e le sculture nel parco.

         

Sono state le temporanee a deluderci: troppo particolari, troppo di nicchia. Ci siamo seduti una decina di minuti ad apprezzare la vista all’aperto e già erano le 18.00, tutti fuori.

Al camper abbiamo fatto fare un giro ai cani, spesa per la cena e fermo in un’area residenziale vicino al bosco, per permettere alle belve di trotterellare liberamente. Domani ci aspetta Shakespeare e il castello di Amleto

 

15 AGOSTO Domenica (giorno 7):  

Ci svegliamo presto perché i cani sentono i danesi fare jogging e portare i cani a camminare. Insomma, reclamano il loro giro. Dunque in piedi e via nel bosco. Facciamo colazione e per le 9:30 ci mettiamo in marcia. Parcheggiamo e con una breve passeggiata siamo alla nostra meta: il Kronborg castle. Il castello merita solo per tutto ciò che gira attorno a Shakespeare e Amleto perché per troppo tempo fu in mano all’esercito (pure la cappella venne utilizzata come aula di esercizio della scherma), dunque ogni arredo non è originale, ma risalente all’epoca e posizionato nel 900. I soffitti lignei a cassettoni, stucchi e decorazioni tutto perduto, o nell’incendio che lo distrusse in un primo momento o dall’uso dell’esercito. La cappella invece presenta ancora l’antica decorazione ed è veramente pregevole.

Ma, il castello va visitato. Soprattutto se si ha la fortuna di trovare una guida in costume che si presenta come Orazio, l’amico fidato di Amleto che ebbe da lui la preghiera di raccontarne la storia. La guida, con toni teatrali, ci ha accompagnati nei luoghi salienti della tragedia, inscenando o raccontando gli eventi: ora nella cappella, ora nella stanza della madre di Amleto, ora nella sala del duello. Il tutto ha reso la visita trascinante e persino divertente. Abbiamo poi visitato in solitaria tutte le stanze e i sotterranei delle casematte: non c’è un percorso particolare. Siamo rimasti nel castello circa tre ore e ci sono letteralmente volate! Anche l’esterno a picco sul mare, con la Svezia a un palmo di naso, merita la passeggiata!

        

Pranziamo (stanchi ma entusiasti dell’esperienza) nel parcheggio e facciamo correre i cani (più e più volte) nell’enorme area verde adiacente. Ripartiamo in direzione Roskilde. Facciamo però due deviazioni maturate in questi giorni: una ad Arken, per ammirare l’architettura del museo di arte moderna. Le esposizioni attualmente in corso non mi convincono, la delusione di quelle trovate nel Luisiana è troppo fresca, dunque decidiamo di non entrare, tra l’altro, nemmeno saremmo riusciti, siamo arrivati poco prima della chiusura delle 17:00. L’edificio merita. La sua posizione incastonata tra prati di erbe alte, stagni e ponticelli lo rende suggestivo.

Anche gli allestimenti posizionati all’esterno in un percorso libero, immediato, sono interessanti, soprattutto i lampioni contorti e la gabbia con specchio. Ne approfittiamo per far correre le bestiole, che non si stancano mai…

        

E ripartiamo per vedere la seconda deviazione: Haveforeningen Harekaer, un centro abitato con un disegno urbanistico incredibile: dei cerchi perfetti divisi in spicchi. Ogni spicchio ha la sua casetta collocata sul bordo esterno, il resto è destinato a giardino. Al centro del cerchio ci sono i parcheggi, raggiungibili da una sola strada. Dalla strada principale partono le secondarie come fossero steli che si concludono nel singolo cerchio. Interessante, peccato che non si percepisca granché di questo meraviglioso disegno, se non tramite una vista in pianta o dall’alto ma l’idea ci piace molto, rimane verde tutto attorno e le auto concentrate in un punto solo e nascoste.

        

Riprendiamo il viaggio breve, arriviamo a Roskilde alle 19:00, parcheggiamo in un ampio piazzale al porto vicino all’ostello.

 

16 AGOSTO Lunedì (giorno 8):  

Ci svegliamo dopo una buona nottata, a parte qualche colpo di pioggia. Via a passeggio con le belve! Colazione e Museo delle navi vichinghe di Roskilde! Belloooooo!!!

Il museo è un edificio semplicissimo che alloggia e protegge ciò che è rimasto di cinque navi vichinghe. Durante la visita ci sono svariate fonti per conoscere a fondo il tema, noi abbiamo avuto l’occasione di seguire un video di un quarto d’ora, in italiano, poi una guida in inglese ci ha mostrato le tecniche di costruzione, gli strumenti e ci ha nuovamente raccontato la storia della scoperta, del rinvenimento e del posizionamento nel sito. In verità anche solo leggendo i cartelli esposti e analizzando i modellini, avremmo potuto assumere tutte le informazioni necessarie. Le cinque navi provengono tutte dalla stessa area, erano state posizionate lì in quanto imbarcazioni oramai in disuso, e servivano da blocco per l’accesso al fiordo. Una volta divenuto inutile lo sbarramento, le navi, si sono col tempo depositate sul fondo e sono rimaste nascoste per secoli. A metà degli anni ’50, con un grande intervento di ingegneria idraulica per asciugare l’intero sito, le navi sono state rilevate, restituite, catalogate ed estratte. Poi lavate, inserite in glicole (asse dopo asse) e ricomposte nel museo. Sono imbarcazioni diverse! Trasporto merci, militari, pescherecci. Davvero estremamente interessante. La visita viene poi impreziosita dalla possibilità di guardare falegnami che realizzano oggi delle copie di queste navi vichinghe cercando di utilizzare i medesimi materiali e gli stessi strumenti!

   

Ci sono molte attività per bambini. Le mie ragazze sono grandi, ma con Giulia ci siamo comunque divertite a realizzare una piccola barca- ricordo usando solo tavole di legno, sega e chiodi!

Facciamo le due di pomeriggio a segare e inchiodare, rientriamo di corsa perché piove fortissimo!

   

Fortunatamente Sergio e Camilla sono rientrati prima per stare con i cani e preparare il pranzo.

Mangiamo, ci riposiamo e facciamo giocare le belve.

Alle 16:15, decidiamo di sfidare la pioggia battente per vedere la cattedrale.  Imponente, davvero interessante, soprattutto per la quantità di sepolcri reali che contiene. Si può visitare la cripta, con le tombe dei bambini e si può salire in alto ma non accedere al palco reale. Carino l’orologio che ad ogni ora mostra la figuretta di San Giorgio che infilza il drago. La visita potrebbe durare tranquillamente un paio d’ore perché viene consegnata all’ingresso una guida approfondita e dettagliata da sfogliare. All’uscita c’è il sole!!!

    

Torniamo al camper, giretto ai cani. Partiamo. Direzione Odense.

Abbiamo attraversato il ponte che unisce le due isole, 23 km sul mare!

Sotto l’immancabile pioggia, ci fermiamo per  cena e la notte in riva al mare, a pochi chilometri da Kerteminde.

 

17 AGOSTO Martedì (giorno 9):  

Ladby. Dopo una notte di pioggia battente e una sveglia all’alba per automobilisti simpaticoni che passano strombazzando, ci spostiamo al parcheggio del museo nave tomba di Lyn che ha un’ampia area verde dove riusciamo a far divertire i cani. Ci riposiamo fino alle nove, colazione, altro gioco ai cani e entriamo. Il museo vero e proprio è semplice, organizzato per rendere più lunga e appetibile la visita alla tomba. Nel museo si trovano, oltre a vari ammennicoli (la ricostruzione della barca con tanto di omino e animali sacrificati, un arazzo ricamato dalle donne del posto, esempi di abiti dei vichinghi ecc) anche gli oggetti che erano presenti direttamente nella barca o altri ritrovamenti vichinghi, rinvenuti nei dintorni. Interessante, ma la voglia di vedere l’unica barca tomba vichinga (di un re, con 11 cavalli e alcuni cani e giochi e cibi e armi, visibile nel suo luogo di sepoltura) fa scalpitare.

La tomba è fuori, raggiungibile con una brevissima passeggiata, sotto una collina larga 30 metri. Una porta di accesso direttamente ai piedi della collina porta nel cuore della stessa, dove sotto una cupola di cemento, è stata mantenuto quello che resta (praticamente il calco) della barca nella sua posizione originale. Del legname non è rimasto nulla, ma si vedono chiaramente le sagome dei rivetti, delle tavole, e le ossa dei cavalli e cani sepolti con il re. L’ancora originale è ancora al suo posto, con la catena. Molto molto suggestiva.

      

All’uscita i cani ci salutano dai sedili del camper, Ponyo, presa dall’entusiasmo si appoggia al volante e strombazza come il migliore degli automobilisti! Si merita un bel giro!

   

A mezzogiorno ripartiamo. Arriviamo a Odense dubbiosi perché abbiamo letto critiche e giudizi negativi… Invece è carinissima! Allora, andiamo per ordine. Tutto l’ambito Andersen è in ristrutturazione, quindi non completamente aperto al pubblico, anche il biglietto, di conseguenza è ridotto.

La casa dove Hans Christian Andersen è nato, era chiusa, abbiamo potuto solo vederla dall’esterno. Quella dove si è trasferito a due mesi e vi ha vissuto fino a 14 si è rivelata una delusione… Non c’è nulla: una stanzina vuota, con alcune locandine esplicative ed una seconda stanzina con uno scrittoio, un lettuccio e un paio di giocattoli. Il giardino all’esterno è visitabile, ma lo si fa con la morte nel cuore, dopo aver scoperto che ai tempi del bimbo Hans Christian, lì c’era un muro e lui il giardino lo avrebbe desiderato molto!

  

Il museo invece ci è piaciuto. Parte molto lento, al punto che ci si chiedeva quanto altro “nulla” avrebbe esposto… Invece, poi l’ambientazione delle varie favole è stata interessante! Un viaggio onirico da un soldatino ad una principessa sul pisello, dalla sirenetta all’uccellino dorato al brutto anatroccolo, in un susseguirsi di sensazioni coinvolgenti, di evocazioni delicate. Piaciuto!

      

Nella piazza principale della città, davanti alla cattedrale, stavano allestendo un festival dei fiori che aprirà al pubblico fra due giorni, abbiamo però visto già alcune installazioni davvero meravigliose! Fiori e verde a profusioni! Sarebbe bello vederlo completo…

Verso le sette siamo ripartiti per un campeggio molto agreste: un cascinale che permette di alloggiare nel proprio giardino, tra galline zampettanti, gatti, pavoni, un maialotto e alcuni animali in gabbia. La zona lavanderia è una cantinaccia piena di carabattole ammassate e tante tante ragnatele, ma gli elettrodomestici sono pulitissimi e nuovi (c’è una bella asciugatrice!), siamo proprio felici, via di lavatrici come se non ci fosse un domani!!!

 

 

18 AGOSTO Mercoledì (giorno 10):

Egescov castello. Partiamo dal parcheggio bucolico relativamente presto, vogliamo entrare al castello all’apertura per non trovare affollate le stanze aperte al pubblico e sappiamo che è una meta molto frequentata. Che dire, quel sito merita il costo spropositato. Si entra alle dieci. Tutti gli edifici chiudono alle 18.00 ma si può rimanere nel parco e nei giardini fino al tramonto.

Il castello è attualmente abitato dai Conti proprietari Ahlefeldt Laurvig-Bille, dunque solo una parte è visitabile, molto pregevole in verità, ma non troppo ampia… Il sottotetto ospita interessanti collezioni: del giocattolo (abbiamo visto giochi in latta dei primi del ‘900 a molla davvero bellissimi!) degli oggetti da cucina, come proto stampini per biscotti o forme per gelatine… porcellane, stoviglie, cristalli…

  

Oltre l’edificio del castello, molti altri stabili adiacenti sono stati adibiti a scrigno per collezioni: auto e moto d’epoca, alcune anche molto particolari su tre ruote… Velivoli… Un’area da noi poco apprezzata, destinata a museo del campeggio (giusto allestimenti di tende o roulotte stupefacenti). La ricostruzione di una botteguccia di inizio ‘900, con le scatolette, le boccette, bilance e cibi sfusi…

La cosa che rende Egescov meraviglioso però sono i giardini! Aree intere destinate a dalie di mille tipologie e colori, le fucsie, il giardino rinascimentale, l’orto-giardino, le piante odorose, fagioli rampicanti a sfondo, plox ed echinacee di mille tonalità… Aiuole, vasi, bordure, una profusione di fiori incredibibile, e una miriade di farfalle e api!

Vale la pena perdersi!

  

Sculture disseminate tra gli arbusti. Un susseguirsi di ampie aree divise in aiuole caratterizzate da una tematica diversa, con fioriture studiatissime sia da un punto di vista morfologico che cromatico e di rotazione temporale. Noi abbiamo trovato una giornata ventosissima che ha piegato e spezzato tutte le distese di gladioli, una tristezza…

          

Ho provato anche il labirinto nuovo (quello antico, non è più aperto al pubblico per tutelare le radici delle siepi, fragili) all’inizio sembra una sciocchezza, poi le strade si biforcano e ancora e ancora… E va beh!!!

Anche l’area giochi per bambini e ragazzi è davvero ben fatta! Un enorme cuscino di aria compressa su cui saltare, un parco sospeso e molti altri giochi. Da fare!

Ovviamente siamo usciti quando il parcheggio era oramai vuoto (con i debiti ritorni ogni tre ore per far correre le belve). Nel parco si possono portare anche i cani… Se voi non avete una cucciola di 4 mesi che scava i giardini come attività principale e una vecchietta di 11 un attimino aggressiva…

Ripartiti, abbiamo dormito a Vejle per fare la spesa di mattina presto, ma non vedremo né la cattedrale né la sua mummia, non c’è tempo, ci aspetta LEGOLAND!

 

19 AGOSTO Giovedì (giorno 11):  

A Billund non ci arriviamo tardi ma c’è già coda ad entrare e parecchia. Io e Camilla decidiamo di restare in camper: a lei interessa davvero poco e io preferisco non creare altro disagio ai cani, il parco per me è sacrificabile; dunque Sergio fa i biglietti on line e risolve il problema della lunga attesa al volo! E lui e Giula partono. La nostra giornata si divide tra pulizia, giri ai cani e lettura: io di Shantaram, Camilla è alle prese con il conte di Montecristo!). Di Legoland Sergio ha detto che…ne vale la pena, più per quello che rappresenta che per quello che è. È un parco tarato per famiglie, con figli al massimo dodicenni. Le attrazioni non sono adrenaliniche ma cmq carine. Complice forse la giornata un po’ uggiosa, in generale le code sono accettabili. Siamo riusciti a fare tutte quelle che ci interessava almeno una volta (abbiamo saltato DUPLO, per piccini e l’acquario). Bella la miniland anche se particolarmente incentrata sull’area scandinava. L’area a tema “Lego Movie”, la più recente, risulta anche la migliore: veramente coinvolgente il cinema 4D (o5?)D.

  

Nessuna traccia di Star Wars (avevo letto che c’era), probabilmente chiusa per COVID, come (poche) altre parti oppure addirittura smantellata. Visto il generale alto prezzo dei kit in mattoncini LEGO, conviene fare l’investimento del prezzo del biglietto per comperarli nel negozio del parco dove si trovano delle occasioni.

   

     

In serata partiamo alla scoperta delle pietre runiche di Jelling al tramonto!

Le pietre sono un reperto fondamentale per i danesi: risalgono al X secolo e lì compare per la prima volta la scritta “Danimarca” e pure una raffigurazione di Cristo in croce, a rappresentare l’arrivo del cristianesimo nel nuovo territorio riunito sotto un unico re. L’allestimento però mi ha deluso moltissimo! La location è suggestiva, all’interno di un piccolo cimitero ben curato, molto intimo, con la chiesina bianca che fa da guardiano, le pietre sono chiuse in teche di vetro a proteggerle. Le iscrizioni ovviamente si percepiscono ma non sono perfettamente visibili, bastava posizionare a lato un piccolo schema raffigurante il disegno intero, per aiutare l’osservatore a percepire i singoli tratti ed inserirli nella complessità della composizione, invece la tavola riassuntiva di tutte le facce delle pietre, sì c’è, ma è piccola (con rilievi piccoli!!!) e disposta a terra, a lato dell’ingresso della chiesa, quindi richiede un continuo vai e vieni per capire qualcosa in più…

    

   

Facciamo una passeggiata in cima alla collinetta adiacente per avere un punto di vista più alto sul piccolo camposanto e ripartiamo. Indecisi se andare ad Aarhus o saltarla e puntare subito ad Aalborg. Vedremo, speriamo che la notte porti consiglio!

 

20 AGOSTO venerdì (giorno 12):  

Nottataccia! Prendiamo sonno tardi cercando di decidere dove andare e Holly dalle cinque inizia ad abbaiare a tuttooooo! La città ci spaventa, siamo stanchi, assonnati e nervosi, dunque puntiamo a Lindholm, il cimitero vichingo appena fuori Aalborg. Che spettacolo! Un luogo davvero spirituale. Un’ampia area verde da cui affiorano pietre, alcune singole appuntite, altre tondeggianti, ma spettacolari quelle disposte a formare la sagoma di una barca, a segnalare anch’esse una sepoltura. Il tutto in questo verde punteggiato da pecore gonfie di lana e belanti.

  

      

Proprio rilassante. Più ben disposti nei confronti del mondo intero decidiamo di visitare Aalborg e il centro Utzon. Dunque, per gradi… Il museo lo sconsiglio. Non costa molto, ma l’unica cosa davvero notevole è la struttura: un palazzo espositivo davvero bello (ultima opera progettata dall’architetto dell’Opera di Sidney), con un’interessante scelta dei materiali, un chiostro centrale su cui affaccia un corridoio espositivo che gira tutto attorno alle vetrate sul verde fiorito, arredato per un caffè all’aperto e un’arnia per le api.

  

      

La mostra monografica su Utzon è basata su qualche stampa 3D con didascalia ed esclusivamente video. Io avrei voluto vedere dei disegni, schizzi autografi, qualche modellino vero… Invece no. Delusione. Le due monografiche che abbiamo trovato, lasciamo stare. Sembra un museo emozionale, di sperimentazione empirica più che una fondazione di architettura. So di risultare esigente e spocchiosa, ma buttare i soldi non mi piace! Dopo il museo abbiamo fatto un giretto in città. Aalborg è carina, niente di indimenticabile, ma vivibile, con un bell’affaccio sul fiordo, edifici moderni, viva, pulita. Carina!

 

Abbiamo preso un caffè e siamo tornati in camper. Ceniamo in autostrada, arriviamo a Skagen di sera tarda e scegliamo il parcheggio fuori da una scuola per passare la notte.

 

21 AGOSTO sabato (giorno 13):  

Dormiamo benissimo finalmente! Partiamo presto per raggiungere Grener: la punta più estrema della Danimarca e via a piedi con i cani mentre le ragazze dormono. Una bella esperienza! Alle otto di mattina la spiaggia è ancora pressoché vuota, forse tre o quattro coppie di turisti. Facciamo foto, vediamo meduse, arriviamo al punto in cui il Baltico di scontra con il mare del Nord e si vede benissimo! Ci sono due squadre di onde: una proveniente da destra e una da sinistra che si affrontano oltre una piccola lingua di terra che sprofonda nell’acqua nel punto esatto delle scontro/incontro.

  

Torniamo al camper formando un percorso ad anello che entra tra i cespugli di rose selvatiche e bacche arancioni. Facciamo colazione e ripercorriamo il tutto con le ragazze ma lasciamo i cani a riposare (cambiamo belve insomma…). La gente è tantissima! Ma la marea si è abbassata, sono arrivate a riva enormi meduse di vari colori, poverelle… ma che spettacolo!

           

  

Ripartiamo per arrivare alla chiesa sommersa. Dalla strada non si vede: rimane nascosta nella foresta di pini marini, un pochino ci delude perché sembra una semplice cappelletta. In realtà quello che si vede è la sommità della torre, mentre il resto della chiesa (cioè, per la precisione una navata lunga 45 mt) è in parte stato distrutto (tetto e coperture), in parte sommerso (pavimentazione e parte dei muri perimetrali)! Ripartiamo per la duna mobile!

Arriviamo a Rabjer mile e ci fermiamo per fare pranzo, una buona pasta! Dopo un momento di riposo, alle tre e mezza, via, a risalire le dune! Uno spettacolo inimmaginabile!

 

Una distesa desertica di sabbia bianca soffice, pulita, enorme, ficcata in mezzo alla vegetazione, come fosse caduta dal cielo, incredibile! Un paesaggio surreale costantemente spazzato dal vento. La duna si sposta ogni anno di 13-17 mt, significa più di un metro al mese, a pensarci resto perplessa! Ci concediamo una lunga passeggiata, salti e fotografie, rotoloni e meraviglia.

  

Alle cinque e mezza ci rimettiamo in viaggio. Scarico acque, carico, doccia, spesa e via.

Però c’è un però… il camper oltre al problema ai freni che ci perseguita da due giorni (Sergio spinge a fondo ma non frena, deve spingere più volte), oggi ci regala anche un problema ai fari. Facciamo un cambio lampadina al buio, a lato strada, con la pila, ma il corpo lampada è cotto, una parte ci si sbriciola tra le dita, cambiamo comunque la lampadina, pare andare meglio, ma decidiamo di non raggiungere il faro, lo faremo domani, con la luce del mattino che qui l’alba è veramente mattiniera! Così ci fermiamo a dormire in un’area commerciale vicina all’autostrada, domani proveremo a cercare il liquido per i freni…-

 

22 AGOSTO domenica (giorno 14):  

Passiamo le prime ore ad attendere l’apertura del centro commerciale, troviamo tutto: sia delle lampadine più appropriate che il liquido per i freni. Sergio riempie il serbatorio e via per il L ken di Rubjerg Knude. I freni vanno meglio ma il problema non è completamente risolto, io dunque continuo a fare il passeggero…

Il faro dal parcheggio si intravede in lontananza, è un bello scorcio! Fa triste pensare che sia un’attrazione spostata (nel 2019 è stato imbragato e letteralmente trascinato nell’entroterra di 70 mt, per evitare che cadesse nel mare a causa dell’erosione della costa), ci fa sentire un pochino scimmiette ammaestrate, ma per le fotografie è proprio un bel panorama. Il dirupo sabbioso verso il mare, il faro sulla sabbia chiara e poi i cespugli verde argento o fioriti di rose selvatiche e bacche rosse in primo piano. Portiamo anche i cani e ci facciamo una bella passeggiata davvero! Sergio e le ragazze salgono anche sulla sommità del faro, io, con il mio amore per le scale aperte e le piattaforme in alto, mi sacrifico felicemente e tengo i cani. Il posto è davvero bello, ci si sente un po’ sciocchi a pensare al muratore danese che ha spostato l’attrazione con tanto di binari e facciona sorridente, ma vale la tappa.

Torniamo in camper e partiamo subito verso le hawaii fredde. A meno di un’ora dall’arrivo ci siamo fermati sul fiordo che si incrocia per ammirare una bellissima zona umida con tanto di osservatorio, siamo riusciti a vedere una spatola bianca!!!  Dall’altro lato della strada, arenata sulla spiaggia, invece, la carcassa di una foca morta da poco… Ripartiamo per il parco naz. Thy, ci fermiamo sulla spiaggia a Klitmoller (hawaii fredde) dove i giovani si divertono con il vento, chi wind surf, chi col paracadute… Noi ci concediamo una passeggiata e sguinzagliamo gli aquiloni! Io mi metto a leggere una mezz’ora sulla spiaggia, bello!!! Passeggiando troviamo una distesa di granchi morti lunga alcuni metri, chele, zampe corpi a pezzi o anche solo bucati e una miriade di gabbiani che banchettano!

  

Ci spostiamo un paio di chilometri per vedere i bunker tedeschi, peccato che non siano valorizzati per nulla! Alcuni sono pure stati spostati inclinati, allontanati dalle mareggiate, tutti inagibili perché colmi di sabbia, un vero peccato! Ci sediamo su una calotta di cemento e ci beviamo le birre che Sergio si era portato di nascosto, perfetto!

Rientriamo in camper per la cena. Nel mentre vediamo una marea di persone arrivare alla spicciolata in direzione dei bunker, intuiamo che sia per vedere il tramonto. Vuoi perdere l’occasione? Si va!

È stata una bella esperienza enfatizzata dallo stupore di Camilla che ci ha fatto realizzare che per le ragazze era il primo tramonto a mare un momento romantico ma anche divertente, con questo sole che pare sciogliersi e alla fine rimane un lumicino e poi più nulla. Alle nove ripartiamo verso sud. Ci fermiamo a dormire dopo una ventina di chilometri in un posto spettacolare! In mezzo al bosco, una radura dove siamo soli, vicino c’è un laghetto e bosco, ma lo vedremo domani…

 

23 AGOSTO lunedì (giorno 15):

Facciamo, appena svegli, un bel giro fuori. Bellissimo! Siamo immersi nella natura, bosco attorno e sentieri, nessuno! Ci concediamo un giretto tranquillo con i cani. Arriviamo al laghetto: uno specchio d’acqua meraviglioso, silenzioso, poetico, a parte il cagnino Ponyo che si inventa di fare il bagno... Poi partiamo! Arriviamo in tarda mattinata a Thyboron. Puntiamo subito al memoriale della guerra dello jutland. Un’opera d’arte a cielo aperto che ci lascia ammirati, sbigottiti e tristi. Molte pietre a punta affiorano dall’erba per un paio di metri, come pezzi di navi incagliate, e attorno delle sculture umane stilizzate. Su ogni pietra, il nome della nave affondata ed il numero di morti. Il tutto immerso nella pace. Pochissimi visitatori, un sito addirittura introspettivo.

  

Continuando sulla tematica della guerra, scegliamo di fare un giro tra i bunker che incombono minacciosi sulle spiagge bianche. Purtroppo anche qui sono lasciati come carcasse abbandonate alla mercé del tempo e delle intemperie, non c’è un’idea di utilizzo a fini didattici, sono lì, a ricordare ciò che fu, senza dar troppo peso agli eventi, come ad attendere che sia il tempo a fare il suo corso…

 

Passiamo a vedere la casa rivestita in conchiglie. Da vedere, è molto particolare, cozze dipinte di verde a sembrare foglie o rosa ad evocare petali di fiori. Composizioni e mandala il tutto di conchiglie… A volte davvero kitsch, ma va vista! Dentro c’è un piccolo negozietto di conchiglie e chincaglierie. Carino!

      

Partiamo, il sud ci pretende!

Lyngvig Fyr si vede da lontano, si staglia sulle dune, sotto il verde dei prati, sono già scorci bellissimi! Dentro ha una scala a chiocciola faticosa e spettacolare, io, terrorizzata, decido di passare, mi faccio una passeggiata nei prati attorno, con i cani. Il faro al resto della famiglia piace, anche se la vista dall’alto su un campeggio sterminato li lascia parecchio perplessi. Chiudono il faro appena scendono, tempismo perfetto! Ripartiamo molto determinati, vogliamo arrivare a dormire sull’isola di Fano.

Prendiamo il traghetto verso le dieci, siamo fortunatissimi! E io nell’attesa ho preparato la cena, ceniamo sul traghetto: una tagliata di manzo (io di seitan) e patate al burro e rosmarino, che nemmeno fossimo a casa! Con le patate che qui vendono già lesse in vasetto è facile! Dopo il traghetto c’è un punto informazioni, Sergio capisce che stiamo facendo la cosa giusta: le foche sono stanziali e domattina le vedremo! Dobbiamo solo fare attenzione alle maree! Partiamo per il paesino situato a sud dell’isola: Sonderho. Domani mattina si partirà dalla spiaggia! Arriviamo stanchissimi in un parcheggio che speriamo non ci crei problemi… Non siamo lucidi, la stanchezza è molta e domani, sveglia alle sette, abbiamo calcolato che con le maree dovrebbe essere l’orario perfetto.

 

24 AGOSTO martedì (giorno 16):

Fano. Ci svegliamo alle sette e ci spostiamo a parcheggiare in spiaggia dove sappiamo che parte l’escursione guidata per vedere le foche. Le ragazze collaborano, nonostante l’ora (per loro) antelucana, sperano di fare una bella esperienza! Colazione in piedi e via, scorgiamo, in fondo, lontanissimi, dei puntolini… Sono loro, entusiasmo a mille!!! Partiamo di buon passo e i puntolini si avvicinano lentissimamente! Ma non si molla! Un po’ si affonda, scalzi, ma avanti tutta! Ci vuole un’oretta buona per arrivare al primo banco, le vediamo oltre una striscia d’acqua fonda, ma sono vicine, possiamo vederle benissimo. Alcune sono in ammollo nell’acqua davanti a noi e ci raggiungono in fretta, emergono a pochi metri e si tuffano di nuovo sott’acqua, un paio arrivano davvero vicinissime, è quasi commovente! 

  

Ci accorgiamo che il secondo banco che vedevamo già dalla riva è diviso in due parti: una è, come questo, spiaggiata oltre il “canale”, ma un numero ridotto di foche è sulla nostra stessa lingua di terra! Dunque riprendiamo a camminare, sono molto distanti, ci vogliono di nuovo una ventina di minuti. Nel frattempo, le nostre amiche in acqua continuano a seguirci, ad emergere ed inabissarsi, giocando. Giunti nei paraggi ci fermiamo a distanza di sicurezza per non spaventarle e facciamo una decina di metri per poi fermarci di nuovo, svariate volte.

Arriviamo vicinissimi! Possiamo vederle benissimo e soprattutto sentire i loro versi! Ad un certo punto decidono di raggiungere il resto del branco sull’altra sponda e si lanciano tutte in acqua, uno spettacolo! Siamo felicissimi ed elettrizzati!  È senza dubbio una delle esperienze più esaltanti che io abbia fatto nella vita!

Sazi di emozioni ed immagini uniche, riprendiamo la spiaggia in direzione camper, in silenzio, godendo quanto vissuto; nel frattempo, i primi due altri turisti sono giunti vicino a noi e in lontananza si percepisce una miriade di persone in avvicinamento.

 

 

Al ritorno al parcheggio ci accorgiamo che, dove c’eravamo solo noi ed un altro furgoncino, ora è affollatissimo!

Decidiamo di andare a mangiare qualcosa a Sonderho, lasciamo il camper in spiaggia. Dal camper Sergio si inventa di fare un percorso in bicicletta di un paio di chilometri sulla spiaggia. Un pochino duro, ci si affossa, ma bellissimo! Tra erbe affioranti, conchiglie e qualche granchio rinsecchito, la marea è ancora molto bassa. Sui prati vicini a volte si scorgono delle bufale dal manto rossiccio e peloso.

  

 Il paesino a sud sull’isola di Fano è davvero suggestivo! Piace a tutti! Stradine battute o erbose, casine piccole, colorate, con giardini curati, fioriti, farfalle che svolazzano da un prato all’altro, biciclette e gente seduta in veranda con un bicchiere di vino ed un pasto frugale. Bello, trascinante!

      

Scegliamo un piccolo bar che prepara panini al momento e frullati freschi. Sergio e le ragazze scelgono un panino al salmone, io con hummus e ci lasciamo tentare da frullati coloratissimi! Sediamo all’aperto, su panchette coperte da pelli di pecora.

  

Tutto pare lento, surreale. Ci fermiamo ad un piccolo negozio di anticaglie. Sergio scova dei 33 giri che solo lui può apprezzare (cover datate e danesi) ma proprio per questo dobbiamo averli! Continuiamo la nostra passeggiata tra le casupole. Il museo di arte chiude prestissimo, lo saltiamo… Torniamo alle biciclette e scegliamo la via breve per il camper, questa volta. La stanchezza arriva!

Lasciamo l’isola bellissima che ci ha preso un pezzettino di cuore attraverso le famose spiagge carrabili per riprendere il nostro traghetto. Percorriamo 13 chilometri di sabbia battuta, tra danesi che si divertono con le auto parcheggiate quasi sul bagnasciuga.

Prendiamo il traghetto con pochissima attesa.

Ad Esbjerg, tappa all’opera “L’uomo davanti al mare” quattro gigantesche statue bianche sedute a guardare il mare. Alte nove metri di dubbio, dubbio gusto. La cosa bella è che trovo un sasso dipinto a coccinella di una carissima donna tedesca (Heidy, mi lascia i suoi riferimenti di un gruppo FB) che contatto e ringrazio per la cosa gentile!

 

Uscendo da Esbjerg decidiamo di passare dal centro per vedere l’acquedotto, simbolo della città, che ci lascia molto indifferenti, e la casa della musica, progetto di Utzon che invece ci sorprende: è un’architettura particolare e piacevolissima! Con colonne bianche e vetro e soffitti elaborati. Sia l’esterno che l’ampio salone che si vede appena entrati, meritano! Una bella scoperta!

E via di nuovo nel nostro ritorno verso sud.

Arriviamo nel tardo pomeriggio nell’area sosta di Ribe, scarichiamo, carichiamo e ceniamo in camper. Siamo stanchissimi. Ribe la visitiamo dopo il tramonto. Si rivela un paese bellissimo!

Le case antiche sono pittoresche, spiamo negli appartamenti, le luci accese nei soggiorni caldi, con abat jour e candele e lampade sparse, mobili in legno e librerie, piante, (soprattutto orchidee) sui davanzali interni e ninnoli decorativi in bella mostra; tutto è molto accogliente. I ristoranti hanno i tavolini all’aperto e la gente si attarda per le strade, strano, c’è un po’ di vita! La piazza è grande, con una pavimentazione magnifica a piastre in pietra di misure diverse, degradante verso l’accesso della cattedrale. Negozietti, bar, ristoranti colorano le vie, un paese davvero accattivante!

Rientriamo verso le 10.30 stanchissimi! Leggiamo un poco e dormiamo in un niente.

 

 

25 AGOSTO mercoledì (giorno 17)  

Giorno: Bellissima nottata! Ci svegliamo con calma, l’intento è quello di vedere la città sveglia, purtroppo però scopriamo che il tempo è brutto, eravamo oramai abituati al sole! Verso le dieci ci incamminiamo in Ribe che si svela meno affascinante, nessuno all’aperto, tavolini vuoti, insomma, ieri sera era meglio! Vediamo la piazza della cattedrale e decidiamo di passeggiare senza meta, spiando le case antiche meravigliosamente restaurate e le porte d’ingresso colorate.

          

Compriamo qualcosa per pranzo e un sacchetto di gustosissimi bretzel e nel primissimo pomeriggio ripartiamo!

(wadden sea national park) La strada rialzata che porta a Romo è davvero caratteristica, sembra di sfrecciare ora tra campi sterminati, ora sul mare, ora su torbiere!

      

L’isola di Romo ci sembra più triste, rispetto a fano, forse anche per il clima poco favorevole! Eh, va beh. Prima saliamo verso nord, per vedere la recinzione in ossa di balena, e compriamo un barattolo di miele dall’espositore all’aperto fiducioso, con cassettina per i soldi.

       

Ci fermiamo davanti alla Casa del Capitano (museo) e ci accorgiamo che siamo stanchi… Dunque puntiamo alla spiaggia carrabile e ci riposiamo per mezz’ora, al ritorno ci fermiamo nella zona commerciale per acquistare qualche ricordino. Il clima è freddo e ventosissimo, decidiamo di rientrare, così facciamo fatica ad apprezzare le cose! Avrei voluto vedere il cimitero dei balenieri, nel paesino a sud, ma sarà per il prossimo viaggio! Torniamo sulla strada rialzata e puntiamo verso Tonder. Ci fermiamo in un fast-food e alle 20.00 entriamo in Germania. Fine

 

26 Agosto giovedì: Viaggio stop a Hameln

27 Agosto Venerdì: Viaggio arrivo in tardo pomeriggio

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