giovedì 7 febbraio 2013

La cinquecento cilestrina - 1- L'approdo



La prima volta in cui mia madre minacciò di rinchiudermi in un collegio svizzero, stavo mangiando una girella Motta. Che la girella non era solo Motta, ma le altre erano disgustose e infatti non si chiamavano nemmeno girella. Io ero seduto su una panchina, gambe a ciondolare, polpacci nudi, piedi a svirgolare nell’aria. Ma non ero su una panchina qualunque, ero sulla pensilina di attesa del battello. Io da grande volevo fare il capitano del battello e portare le persone da Lovere a Pisogne e da Pisogne a Lovere tutto il giorno. 

E poi magari, un giorno sarebbe arrivata una tempesta ed io mi sarei trovato nel mezzo del lago. 
E sulla riva, tutti a preoccuparsi, a darsi di gomito e a ripetere:
“Guarda c’è il battello in piena bufera”. E tutti si sarebbero angustiati sulla nostra sorte. Propri tutti. E i passeggeri avrebbero cominciato a vomitare a destra e a sinistra, i bambini a piangere e le vecchie a ciarlar rosari. Ma io avrei portato il battello all’attracco, tenendo sempre il cappello in testa. Che un capitano non è un capitano vero senza il suo cappello con la corda d’oro. E avrei aiutato i miei passeggeri a scendere e le donne mi avrebbero abbracciato e gli uomini mi avrebbero fatto il saluto da veri militari, con gambe dritte spalle in dietro e mano tesa sopra gli occhi. E la Marisa, dalla finestra,  avrebbe visto il battello scodinzolato da onde grandi come l’albero di Natale e sarebbe scesa in piazza ad aspettarmi. E mi avrebbe anche dato un bacio. Di certo.

Pensavo a questo quando mia madre mi trovò sulla panchina, con le gambe a pendolo e la girella Motta. E non aveva un’aria per nulla amorevole. E nemmeno materna.
Mi disse che quello che avevo fatto era imperdonabile. Che non avevo giustificazioni. E che mi avrebbe spedito in un collegio svizzero. Mi soffermai sulla parola “spedito”.Perché i figli nei collegi svizzeri si accompagnano, vestiti di tutto punto, con i capelli divisi a metà, con piccole valigie nere e fazzoletti bianchi in cui asciugarsi gli occhi al momento del saluto. Mica si possono inviare per posta i bambini. Un bel pacco di cartone con i buchi sopra per respirare, come la scatola che avevamo fatto per Cippi, il passero che era caduto dal nido. Mia madre si avvicinò furente, urlando : “Mi ascolti o no?”. Ma non feci a tempo a rispondere. Un ceffone sonoro mi colpì precisamente la guancia sinistra. Proprio mentre scendevano i primi passeggeri del battello. Che nemmeno me la meritavo una sberla così teatrale. 

Io non avevo fatto niente. 

Cioè, quasi niente… 

Nel senso che, era vero che ero stato io a versare due litri di latte sui sedili della cinquecento di papà. Ma non era stata una cattiveria. Papà aveva una cinquecento azzurro cilestrino. Bellissima. Interni in pelle marrone. Davvero bellissima. 
Papà amava più la sua cinquecento di mamma. La amava anche più di mamma e me messi insieme. Se con noi, ci mettevi anche la juve, allora forse ci amava uguale. Ma è proprio perché la amava tantissimo che decisi di fargli la sorpresa, di lavare i sedili con il latte. 
La mamma lo utilizzava per gli scarponcini invernali che avevo ed erano di pelle, marrone, come i sedili della cinquecento azzurro cilestrino. Due litri di latte, per pulire a fondo. Non si accorsero subito. La mamma teneva una scorta di latte a lunga conservazione nel sottoscala. Non notò l’assenza ingiustificata dei due litri…

Se ne accorse papà, tre giorni dopo: tornò dal lavoro con i finestrini abbassati. Pioveva. E bestemmiava. E urlava di una puzza di rancido. Io diventai rosso prima sulle guance, poi gli occhi, fino ai capelli. I capelli rossi non sono facili da mascherare. E non riuscii a dire niente, non potevo più parlare. Non ne ero più capace. Scappai -sotto la pioggia, con una girella in tasca, in cerca di approdo.

Racconto scritto nel 2010, ad accompagnare la mostra fotografica di mio marito "I lake Pisogne", altre fotografie su: 
https://plus.google.com/photos/113258995033312588615/albums/5482977161003555329?banner=pwa

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