La prima volta in cui mia madre
minacciò di rinchiudermi in un collegio svizzero, stavo mangiando una girella
Motta. Che la girella non era solo Motta, ma le altre erano disgustose e
infatti non si chiamavano nemmeno girella. Io ero seduto su una panchina, gambe
a ciondolare, polpacci nudi, piedi a svirgolare nell’aria. Ma non ero su una
panchina qualunque, ero sulla pensilina di attesa del battello. Io da grande
volevo fare il capitano del battello e portare le persone da Lovere a Pisogne e
da Pisogne a Lovere tutto il giorno.
E poi magari, un giorno sarebbe arrivata
una tempesta ed io mi sarei trovato nel mezzo del lago.
E sulla riva,
tutti a preoccuparsi, a darsi di gomito e a ripetere:
“Guarda c’è il battello in piena bufera”. E tutti si
sarebbero angustiati sulla nostra sorte. Propri tutti. E i passeggeri avrebbero
cominciato a vomitare a destra e a sinistra, i bambini a piangere e le vecchie
a ciarlar rosari. Ma io avrei portato il battello all’attracco, tenendo sempre
il cappello in testa. Che un capitano non è un capitano vero senza il suo
cappello con la corda d’oro. E avrei aiutato i miei passeggeri a scendere e le
donne mi avrebbero abbracciato e gli uomini mi avrebbero fatto il saluto da
veri militari, con gambe dritte spalle in dietro e mano tesa sopra gli occhi. E
la Marisa, dalla finestra, avrebbe visto
il battello scodinzolato da onde grandi come l’albero di Natale e sarebbe scesa
in piazza ad aspettarmi. E mi avrebbe anche dato un bacio. Di certo.
Pensavo a questo quando mia madre mi trovò sulla panchina,
con le gambe a pendolo e la girella Motta. E non aveva un’aria per nulla
amorevole. E nemmeno materna.
Mi disse che quello che avevo fatto era imperdonabile. Che
non avevo giustificazioni. E che mi avrebbe spedito in un collegio svizzero. Mi
soffermai sulla parola “spedito”.Perché i figli nei collegi svizzeri si
accompagnano, vestiti di tutto punto, con i capelli divisi a metà, con piccole
valigie nere e fazzoletti bianchi in cui asciugarsi gli occhi al momento del
saluto. Mica si possono inviare per posta i bambini. Un bel pacco di cartone
con i buchi sopra per respirare, come la scatola che avevamo fatto per Cippi,
il passero che era caduto dal nido. Mia madre si avvicinò furente, urlando : “Mi
ascolti o no?”. Ma non feci a tempo a rispondere. Un ceffone sonoro mi colpì
precisamente la guancia sinistra. Proprio mentre scendevano i primi passeggeri
del battello. Che nemmeno me la meritavo una sberla così teatrale.
Io non avevo
fatto niente.
Cioè, quasi niente…
Nel senso che, era vero che ero stato io a
versare due litri di latte sui sedili della cinquecento di papà. Ma non era stata una
cattiveria. Papà aveva una cinquecento azzurro cilestrino. Bellissima. Interni
in pelle marrone. Davvero bellissima.
Papà amava più la sua cinquecento di
mamma. La amava anche più di mamma e me messi insieme. Se con noi, ci mettevi
anche la juve, allora forse ci amava uguale. Ma è proprio perché la amava
tantissimo che decisi di fargli la sorpresa, di lavare i sedili con il latte.
La mamma lo utilizzava per gli scarponcini invernali che avevo ed erano di
pelle, marrone, come i sedili della cinquecento azzurro cilestrino. Due litri
di latte, per pulire a fondo. Non si accorsero subito. La mamma teneva una
scorta di latte a lunga conservazione nel sottoscala. Non notò l’assenza
ingiustificata dei due litri…
Se ne accorse papà, tre giorni dopo: tornò dal lavoro con i
finestrini abbassati. Pioveva. E bestemmiava. E urlava di una puzza di rancido.
Io diventai rosso prima sulle guance, poi gli occhi, fino ai capelli. I capelli
rossi non sono facili da mascherare. E non riuscii a dire niente, non potevo
più parlare. Non ne ero più capace. Scappai -sotto la pioggia, con una girella in tasca, in cerca
di approdo.
Racconto scritto nel 2010, ad accompagnare la mostra fotografica di mio marito "I lake Pisogne", altre fotografie su:
https://plus.google.com/photos/113258995033312588615/albums/5482977161003555329?banner=pwa
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