mercoledì 29 dicembre 2021

Il treno dei bambini, Viola Ardone

 

39 - 12/2021

Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi, 2019

NO SPOILER


Non appena scese l’ultimo gradino, sentii che era lei: era lei, la mia.

Con la giacchetta rosa acceso e la borsa coloratissima non poteva che essere destinata a me. E poi era così diversa dalle altre: alte, longilinee, bellissime di occhi cerulei e sottili capelli paglierini. Lei no. Lei aveva gambe corte e forti, occhi allungati e una frangetta rigida ad evidenziarli e capelli nocciola tesi, duri. E uno sguardo di battaglia.

Tra tante russe identiche, l’unica tartara disponibile, l’hanno data a me.

E mi ha regalato un sorriso gigante e uno sguardo che era una dichiarazione di guerra.

I bambini di Chernobyl. Così li chiamavano e Katsiarina veniva un mese all’anno, in una famiglia italiana, per “abbattere le radiazioni”. E per farci soffrire tantissimo.

La prima sera rubò tocchi di pane dal tavolo. Lo nascose nella sua sacca variopinta. In seguito qualche boccone di dolce e caramelle. Poi capì.

Mangiava tutto. Vorace, euforica. Si ingozzava di frutta anche quando era troppo matura. Le banane scurette con quell’odore fermentato. Le albicocche con la macchia nera. Adorava l’anguria! Urlava e saltava attorno al tavolo per il gelato: “GE-LA-TO GE-LA-TO GE-LA-TO!!!”.

E io me la abbracciavo forte.

E lei mi stringeva stretta che pareva facesse un nodo con le braccine, dietro.

E mi mostrava il pugno quando si arrabbiava, a due centimetri dal viso. Con lacrime a rotoloni sulle guance, odio furente negli occhi e un pugno fermo davanti al mio naso.

E faceva il bagno nella piscinetta all’aperto anche nei giorni di pioggia. E mi urlava “mama, no fredo, no fredo!”

E un giorno l’abbiamo portata al mare.

E le insegnavo l’italiano, ma niente da fare: parlava in russo e mostrava il pugno.

E il mese passava e lei ripartiva.

Su quel cazzo di pullman, viso arrabbiato dietro il finestrino, sopracciglia piegate in giù. Io fradicia di lacrime, ma dopo, in macchina.

E nella borsa doveva essersi infilata anche un pezzo del mio cuore, perché, per mesi, non era più lo stesso, mancava tutto il suo frastuono, i suoi piedi che battevano a terra ripetendo NO! L’anguria cambiava sapore. E pure il gelato.

Per due anni è venuta. Poi è stata adottata ed è scomparsa, come certi uragani che spazzano tutto e dopo si ricostruisce, certo, ma il vuoto, sotto, rimane.

 

Il tema di questo romanzo è il viaggio dei bimbi del mezzogiorno, che nel primo dopoguerra, tramite un’idea di solidarietà della sinistra, trascorrevano qualche mese al nord, presso famiglie che potevano alleviare la povertà, garantendo cibo, affetto e cultura. Un viaggio tra due mondi lontani e i piccoli rimanevano sospesi in mezzo, una gamba a Napoli e una a Bologna, senza sentirsi parte di nulla, senza più un vero senso di appartenenza. Un fatto che non conoscevo (e che approfondirò con altri scritti che mi sono stati consigliati, se a qualcuno interessassero, ve li condivido) descritto con la delicatezza che meritano i bambini e la sincerità secca necessaria per descrivere uno spartiacque emotivo di tale portata.

Il protagonista è Amerigo, che possiede solo una scatola di latta e sua madre, schiva pure quella, non avvezza alle cose del cuore. Il bimbo ha l’opportunità di vedere la differenza tra il suo mondo e quello dei coetanei più fortunati. E affronta e ci fa affrontare temi legati alla solidarietà, a come fare del bene può contemporaneamente ferire, al senso di comunità e di famiglia. A come il luogo di nascita può decretare la fortuna (o meno) della riuscita di una vita.

 

Niente recensione dunque, perché di quelle ne trovate a dozzine, ma solo il mio ricordo, scoperchiato dalle pagine che ho letto: l’unica esperienza simile che ho vissuto sulla mia pelle, di una bimba con un piede sul lago d’iseo e uno in Bielorussia.

 

Ha 15 anni, ora quella bimba. Chissà se quando si arrabbia, alza ancora il pugno al cielo.

 

“Ma adesso che la distanza è incolmabile e so che non ti incontrerò più, mi viene il dubbio che sia stato tutto un equivoco, tra me e te. Un amore fatto di malintesi.”

 

"Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. Hanno pigliato le abitudini loro, hanno fatto altre strade, altri giochi. E quando arrivano a me, che ne sanno di come cammino io e di dove voglio andare? Si devono abituare mano mano, ma intanto il piede cresce, le scarpe si fanno piccole e stiamo punto e a capo."

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