L’appello, Alessandro D’Avenia, Mondadori, 2020.
(NO SPOILER)
Fosse stato lo script per una rappresentazione teatrale, “L'appello” mi sarebbe parso perfetto. Già mi immaginavo i ragazzi vestiti di nero alzarsi su uno sfondo bianco, ripetere il proprio nome ad alta voce, poi snocciolare dolori e peculiarità di fronte alla classe e a tutta la platea. Sullo sfondo una cattedra con un professore dagli occhiali scuri
Ma non è così.
“L'appello” è un romanzo. Il protagonista un professore cieco. Davanti a lui una classe sgangherata nell’anno della maturità. I ragazzi, lungo le pagine del libro, si raccontano, al momento dell'appello, seguendo, come fil rouge uno specifico tema proposto dall’insegnante. L'idea è indubbiamente vincente, alle prime pagine ero folgorata. Però qualcosa inizia, in breve tempo, a non funzionare, a mio avviso, il meccanismo s’inceppa.
Immaginarsi giovani sui 18 anni che si alzano davanti a tutta la classe, (non solo ad alcuni compagni selezionati), per presentare se stessi a nudo, esponendo il cuore pulsante su un piatto d'argento... Lo trovo difficilmente accettabile... Sono dispiaciuta perché nelle prime pagine il tema mi aveva conquistata, ero incuriosita e colpita.
Ai miei occhi la trama cade proprio in questi non piccoli inciampi: non credo possibile, per esempio, che una ragazza possa alzarsi e raccontare la sofferenza di un aborto davanti ad una classe che conosce da poco… C’è chi descrive madri picchiate, chi lutti laceranti che portano incubi, padri che tentano il suicidio…Si crea un intreccio forzato, una maglia di dolori immensi sbattuti sul tavolo, in un mondo pubblico per nulla verosimile.
Certo: possono accadere momenti di grande comunione e inclusione in una classe, ma non ripetutamente e non così profondi, imposti a bacchetta a risposta di un tema esterno e in modo quasi gratuito.
Il continuo intrecciarsi di concetti scientifici, ora astronomici ora chimici ora fisici, alla vita vera, a creare una credibile miscellanea è all’inizio davvero intrigante, poi stanca infine pesa...
Ne viene fuori un libro greve, farcito di nozioni allacciate alla realtà in modo più o meno probabile, ritmato da monologhi ripetitivi, ridondanti, dialoghi che si reiterano uguali a se stessi, grondanti clichè.
Senza dubbio è interessante il processo a cui vengono sottoposti la scuola e i metodi educativi in generale, ma le opinioni spesso estreme, i protagonisti che sono personaggi più che persone, rendono il romanzo faticoso impantanato nelle frasi ad effetto; il tutto è appesantito ulteriormente dalle domande retoriche, frasi fatte, richieste illogiche, spiegazioni che spesso sfociano in un arido pontificare.
I personaggi hanno contribuito a rendermi difficile la lettura nella loro poca credibilità: persone spesso bidimensionali raffigurate come i buoni e i cattivi in un gioco tra cowboy e indiani che lascia l'amaro in bocca. La figura del professore protagonista in primis, in me ha risvegliato soprattutto sentimenti negativi. Ho fatto fatica a soffrire con lui: la compassione viene soffocata dal suo carattere egoista, egocentrico e spocchioso soprattutto con gli adulti, incapace a mediare.
Il mio livello di aspettativa all'inizio del libro era alto in quanto l'esordio lo ritengo interessante e da D’Avenia mi aspettavo una scrittura eccellente…
Invece no. Non mi è piaciuto, mi sento proprio di dirlo.
Consiglierei questo libro solo a chi è incuriosito dai problemi che incancreniscono il sistema scolastico: è senza dubbio un testo colmo di idee, proposte ed entusiasmo, inoltre cerca di spostare l'attenzione dall’erudizione sterile alla passione per la cultura, mettendo al centro il vero soggetto: i ragazzi.
“la realtà è un intreccio di cose che accadono e vivere è imparare ad ascoltare, perché le cose e le persone si rivelano solo quando dai loro il tempo di cui hanno bisogno per raccontare la propria, il tempo che ci vuole a spogliarsi senza provare vergogna.” P. 11
“Decisamente le relazioni sono fatte come i puzzlle, solo con gli incastri nei vuoti si stringono legami veri.” P.35
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