lunedì 20 dicembre 2021

Pierre Jarawan, Là dove crescono i cedri

 37 - 12/2021

Pierre Jarawan, Là dove crescono i cedri, SEM, (2016) 2021, traduzione di Emilia Benghi

NO SPOILER


Pensavo di portarti in Libano. 

Immaginavo un percorso facile, forza, sali, che si parte ed eccoci nella terra dei cedri, così: in un batter di ciglia.

E invece no.

Ce lo dobbiamo meritare, il Libano. E ti porto in un viaggio che è iniziazione, è la sottotrama, è il rumore di fondo, mentre brancoliamo cercando una stella polare.


Ma ci vieni, con me, anche se la destinazione non è chiara. Iniziamo da un campo di accoglienza tedesco, c’è un bimbo piccolo, una famiglia libanese: una madre bella e tenace, un padre che racconta storie meravigliose che inebriano grandi e piccini, tutti ad ascoltarlo con occhi rotondi e bocca dischiusa. Lo senti? Narra di dromedari e deserti di terre gialle e reami… E lo vedi il piccolo Samir, rapito e fiero? 

Poi trovano una casa e la quotidianità li accoglie, ora gioiosa, ora pesante, come la vita di ognuno. E arriva pure una sorellina. La Germania, li ospita, ma il Libano rimane cornice e quadro, origine, principio e termine. 


Poco dopo, tutto si frantuma.

Come il vetro del cruscotto, dopo l’impatto, hai presente? Mille coriandoli sfavillanti che non ricordano nulla di ciò che erano. Così, in un tac. E non si può tornare indietro, anche se i pezzettini li recuperi tutti.


E va in frantumi anche Samir. Non abbastanza libanese, non abbastanza tedesco, non abbastanza grande, non abbastanza nulla. E prende il via una danza di ricordi e nostalgie per chi non c’è più, per una terra lontana e sconosciuta ma nella quale ha piantato, suo malgrado, radici. E mentre il dolore di chi è fuggito, o di chi ha abbandonato la patria, è facile da connotare, da nominare e definire, ciò che avviluppa le seconde generazioni è un limbo indefinito di sentimenti contrapposti: malinconici da sradicati o rabbiosi da figli abortiti.


Prima della partenza, dobbiamo soffrire e parecchio: attraversare solitudini gelide, amori che destabilizzano, nevrosi. Solitudini infinite. Inadeguatezza e malinconie. Ma il Libano rimarrà lì, ad ammaliarci, sirena che non tace il canto.

E lì, ti ci porto, ad un certo punto, perché Samir non si dà pace, impantanato nella matassa del ricordo che non si scioglie.

Allora andiamoci, in Libano! Guidiamo su strade inesistenti, appiccicate ai lati scoscesi di montagne aguzze in paesuncoli di capre, case di terra, contadini ed erbe selvatiche. Ti trascino in città, tra lo smog e le grida dei turisti, i colori che fanno a schiaffi sgargianti minigonne e scuri veli pudichi, il traffico e il vino. E la nenia dei muezzin. 


Mentre cerchiamo di capire cosa è successo e perché, passiamo in rassegna gli eventi che hanno lacerato il Paese dagli anni ottanta ai giorni nostri, ma li lasciamo lì, sullo sfondo, in modo da muoverci con consapevolezza, ma leggeri, senza esserne schiacciati.

E continuamente ci domandiamo l’importanza delle radici. Radici che sono affetti di madri e di padri, radici che sono amori, che sono appartenenza ad un luogo, ad un cuore. Radici che a volte vorticano sul pelo d’acqua senza far presa, lasciandoci orfani.

Ma lo capiamo subito che non sono i cedri, a brillare nella notte, indicandoci la via. Non è il Libano la stella polare. Siamo noi stessi, il fine della nostra ricerca. La necessità di una identità, di essere proprio quel “qualcuno”, anche poliedrico o cittadino del mondo. Un figlio, un compagno. Sempre un solingo.


“E dov’è casa? Dove c’è il cuore, si dice. Si torna una sola volta a casa perché abbiamo un cuore solo, e una sola patria.”


Una critica, forte, la faccio, (prima di chiudere) agli effetti wow della trama: i momenti “carramba”, direbbero gli amici. Certi incastri forzati a chiusura perfetta, che, a mio avviso, rendono claudicante la narrazione, la costringono troppo in binari bidimensionali  e no, non la gradisco per niente. Ma lo concedo a Jaravan, questa è l’opera prima di un autore trentenne che ha dato puntellato la narrazione sui fatti della sua vita, con la figura di un  padre che narrava favole al piccolo Pierre...


Ora però, chiudi gli occhi, e ascoltami.

Prima che tu prenda sonno, ti racconto dei cedri. 


#ilibridihollyeponyo


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