39 - 12/2021
Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi, 2019
NO SPOILER
Con la giacchetta rosa acceso e la borsa coloratissima non
poteva che essere destinata a me. E poi era così diversa dalle altre: alte,
longilinee, bellissime di occhi cerulei e sottili capelli paglierini. Lei no. Lei
aveva gambe corte e forti, occhi allungati e una frangetta rigida ad
evidenziarli e capelli nocciola tesi, duri. E uno sguardo di battaglia.
Tra tante russe identiche, l’unica tartara disponibile, l’hanno
data a me.
E mi ha regalato un sorriso gigante e uno sguardo che era
una dichiarazione di guerra.
I bambini di Chernobyl. Così li chiamavano e Katsiarina
veniva un mese all’anno, in una famiglia italiana, per “abbattere le radiazioni”.
E per farci soffrire tantissimo.
La prima sera rubò tocchi di pane dal tavolo. Lo nascose
nella sua sacca variopinta. In seguito qualche boccone di dolce e caramelle. Poi
capì.
Mangiava tutto. Vorace, euforica. Si ingozzava di frutta
anche quando era troppo matura. Le banane scurette con quell’odore fermentato. Le
albicocche con la macchia nera. Adorava l’anguria! Urlava e saltava attorno al
tavolo per il gelato: “GE-LA-TO GE-LA-TO GE-LA-TO!!!”.
E io me la abbracciavo forte.
E lei mi stringeva stretta che pareva facesse un nodo con le
braccine, dietro.
E mi mostrava il pugno quando si arrabbiava, a due
centimetri dal viso. Con lacrime a rotoloni sulle guance, odio furente negli
occhi e un pugno fermo davanti al mio naso.
E faceva il bagno nella piscinetta all’aperto anche nei
giorni di pioggia. E mi urlava “mama, no fredo, no fredo!”
E un giorno l’abbiamo portata al mare.
E le insegnavo l’italiano, ma niente da fare: parlava in
russo e mostrava il pugno.
E il mese passava e lei ripartiva.
Su quel cazzo di pullman, viso arrabbiato dietro il finestrino,
sopracciglia piegate in giù. Io fradicia di lacrime, ma dopo, in macchina.
E nella borsa doveva essersi infilata anche un pezzo del mio
cuore, perché, per mesi, non era più lo stesso, mancava tutto il suo frastuono,
i suoi piedi che battevano a terra ripetendo NO! L’anguria cambiava sapore. E pure
il gelato.
Per due anni è venuta. Poi è stata adottata ed è scomparsa,
come certi uragani che spazzano tutto e dopo si ricostruisce, certo, ma il
vuoto, sotto, rimane.
Il tema di questo romanzo è il viaggio dei bimbi del
mezzogiorno, che nel primo dopoguerra, tramite un’idea di solidarietà della
sinistra, trascorrevano qualche mese al nord, presso famiglie che potevano
alleviare la povertà, garantendo cibo, affetto e cultura. Un viaggio tra due
mondi lontani e i piccoli rimanevano sospesi in mezzo, una gamba a Napoli e una
a Bologna, senza sentirsi parte di nulla, senza più un vero senso di
appartenenza. Un fatto che non conoscevo (e che approfondirò con altri scritti
che mi sono stati consigliati, se a qualcuno interessassero, ve li condivido)
descritto con la delicatezza che meritano i bambini e la sincerità secca necessaria
per descrivere uno spartiacque emotivo di tale portata.
Il protagonista è Amerigo, che possiede solo una scatola di
latta e sua madre, schiva pure quella, non avvezza alle cose del cuore. Il
bimbo ha l’opportunità di vedere la differenza tra il suo mondo e quello dei
coetanei più fortunati. E affronta e ci fa affrontare temi legati alla
solidarietà, a come fare del bene può contemporaneamente ferire, al senso di
comunità e di famiglia. A come il luogo di nascita può decretare la fortuna (o
meno) della riuscita di una vita.
Niente recensione dunque, perché di quelle ne trovate a
dozzine, ma solo il mio ricordo, scoperchiato dalle pagine che ho letto: l’unica
esperienza simile che ho vissuto sulla mia pelle, di una bimba con un piede sul
lago d’iseo e uno in Bielorussia.
Ha 15 anni, ora quella bimba. Chissà se quando si arrabbia,
alza ancora il pugno al cielo.
“Ma adesso che la distanza è incolmabile e so che non ti
incontrerò più, mi viene il dubbio che sia stato tutto un equivoco, tra me e
te. Un amore fatto di malintesi.”
"Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli
dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei.
Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un
punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non
ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma
dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la
forma dei piedi che le hanno usate prima di me. Hanno pigliato le abitudini
loro, hanno fatto altre strade, altri giochi. E quando arrivano a me, che ne
sanno di come cammino io e di dove voglio andare? Si devono abituare mano mano,
ma intanto il piede cresce, le scarpe si fanno piccole e stiamo punto e a capo."