Giornate che si allungano, come figli.
Un primo sapore di caldo, in gola.
Voglia di gazpacho per stasera. Voglia di cenare in veranda, scalzi, gambe nude fino alle ginocchia, immote, a pedinare la musica bassa.
Voglia di crepuscolo, che compare in ritardo. E ci lascia in attesa, cuore in gola, occhi avidi. Ma poi si trattiene, più a lungo a languorarci un po', fermo, in quelle nuove rughe, sopra gli zigomi.
Vino bianco, forse. Ma secco. Fruttato.
E silenzio di voce, per una sera.
Cuscini. Sulle tavole di legno. Sediamo a terra. Che lo sai, c'ho la fissa del contatto col mondo da cui provengo e rimango adesa, come radice a ricercar fessura. E poi camminar sull'erba. Nell'erba. Tra le dita. Verde di erba e di piedi.
E basta musica, ché ci parla il cielo stasera. Le prime stelle e i pianeti. E io non la voglio sapere la differenza, non li voglio conoscere i nomi delle stelle e nemmeno le costellazioni. Mi spaventa il cielo, da sempre.
Sono fatta di terra, io.
Di terra d'estate.

Attendere che piova e correrci dentro a quella terra, che è fango e odore marrone. Scalzi, che la terra ci vuole scalzi. Per lasciarci mettere radici. Venite bambine, ascoltate la terra.

Voglio raccogliere fragole quest'estate. E lamponi, more e uva spina.
E ricolorare i nanetti, inventiamoci gli "hippy garden gnomes"
E infusi di frutta alla sera, un gusto diverso, per ogni sera d'estate.
Basta letargo. Ne ho avuto a sufficienza per quest'anno. Ora rugiada e forsizia e profumo di fiori e di calicantus: stelle regalate dal cielo per aver protetto il pettirosso.
E ti leggerò Prévert, a gran voce: Les enfants qui s'aiment, che fa nulla se l'hanno usata per i Baci Perugina. E ti leggerò Tabucchi, ancora e sempre, sottovoce, Tristano muore, che quella mosca che sbatte sul vetro sarà perfetta nella nostra calura.
Puoi esordire quando vuoi, nel tuo tripudio, primavera, noi siamo pronti.
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