12 - 5/2022
Ivano Porpora, la conservazione metodica del dolore, Einaudi, 2012,
NO SPOILER
La verità è che temevo che ci sarei rimasta male. Perché un post ad effetto lo sappiamo più o meno scrivere tutti, no? Ma un romanzo, ehhhhhh hai voglia.
Per questo non lo l’ho mai letto, Porpora. Lo seguo da anni su Facebook e sogno pure di fare un corso di scrittura, con lui... Ma come scrittore-scrittore, mi domandavo… e se poi è fuffa? Ho ascoltato le sue chiacchierate on line durante il lockdown, i suoi consigli dai film alle canzoni. Ho letto stralci, pensieri e raccontini. Ma un romanzo è un’altra cosa, e se mi delude? Perché io, se ci resto male, pare sempre una giornata di pioggia al tramonto e poi resto in bilico tra tristezza e vuoto per giorni.
Ecco, no, zioccan (così impreca il paese), proprio no.
Un calcio dritto nello stomaco a troncare fiato e perdere equilibrio, ecco cos’è questo libro!
È la storia di Benito uomo, Benito bambino, Benito adolescente. Ed è la storia di Viadana tutta Questo paese della bassa, tra campi e allevamenti e anse del Po.
Benito è un fotografo affermato che sta preparando la mostra più importante della sua carriera. “Omissis” è la raccolta di fotografie che ha scelto di presentare. Ma cosa lega, queste immagini tra loro? Cosa ricordano, cosa evocano, quale titolo dare ad ognuna?
Benito si ritrova a dover fare i conti con la sua patologia: il Grande Male che ha diviso la sua vita in fasi: prima e dopo quello specifico attacco epilettico. E questo disfunzione, in qualche modo, gli ha cancellato dieci anni di vita, di cui non ha alcuna memoria, dai sei ai sedici...
“A un epilettico interessa constatare come stiano muscoli, cuore, sangue dopo ogni rotolata. Se la fronte è rotta, è un buon argomento di conversazione; se la lingua è stata morsa, e quanto a lungo: quello va bene. A un epilettico interessa la prima domanda che gli fanno quando rinviene, che di solito è: “Sai dove sei”; all’epilettico interessa la prima risposta, che sa ma non riesce a formulare, e gli interessa il dolore che ha sulla punta della lingua, viola e nera nei giorni di poi."
E deve fare i conti con l’archivio di fotografie ammassate nel tempo, Benito, in un metodico ordine alfabetico, chiuso a chiave.
“-Perché non butti le foto? - Mi dice ad un tratto.
- Non ho nulla da buttare, Mario, fanno parte di me.”
“-A volte c’è bisogno di deporre la macchina, - dice, e sembra che pali con sé. – L’occhio a volte va chiuso-. Poi riprende: -Perché conservi tutte le foto che fai, Benito?
-Perché io sono lì dentro- indico lo schedario, chiuso col lucchetto.”
Preparando “Omissis”, il fotografo si ricostruisce: gli anni perduti nell’oblio, le donne, gli scatti, gli amici, ma soprattutto il paese e i suoi abitanti con soprannomi bizzarri, occupati in lavori pesanti e sudore. Tiene insieme un circo, Porpora, di comparse perfette, chi clown, chi acrobata, chi domatore, chi fachiro e accompagna l’entrata in scena di ogni artista, al momento perfetto. Come in uno spettacolo degno di tale nome, ogni numero è un successo e ce n’è per tutti i gusti: per chi ride, chi piange, chi ha paura, con una destrezza puntigliosa, entrano in scena i compagni della band, il parroco del paese, il matto, papà e mamma, nonni, fratello, vicini di casa, donne, donne, donne… In una mirabolante carrellata di occhi, di storie, di corpi e di sessi. Di calore e freddo. Di dolore, tanto dolore, ma anche risate e corse in bicicletta e fotografie e politica e musica esigarette sul balcone d’inverno. E fiumi di vino rosso e tazze di camomilla con miele e limone. Un rutilante luna park dalla nascita del neonato a cui viene affibbiato un nome così ostinato, fino all’età adulta, senza mollare la presa nemmeno per un attimo.
Lasciatevi cullare dalla storia, ché la voce inciampa spesso in un dialetto tondo e sonoro, dalle maleparole, dalle bestiemme, dai nomignoli e sberleffi. Vi troverete a Viadana, in piazza, a domandarvi se le campane han ripreso a suonare.
Non vi dirò altro, ma leggetelo, a perdifiato, come ho fatto io, dedicategli tutto il tempo che avete. Ne uscirete con occhi luccicanti, cuore accelerato e un sorriso ebete.
“–Tu dici sempre che per te fotografare è afferrare una lucciola; io credo che a volte le lucciole sia necessario lasciarle andare.”
“- Che hai?
- È che a volte mi perdo. L’unico momento in cui mi sento reale è quando fotografo.”
. #ilibridihollyeponyo
Nessun commento:
Posta un commento
Vuoi lasciarmi il tuo pensiero? Grazie!!!